mercoledì 3 settembre 2008

la Macchina Mondiale

Rivista dei Giovani Comunisti di Urbino

Numero 5/ Giugno



La catastrofe elettorale de «La Sinistra - l’Arcobaleno», rappresenta di certo un unicum infelice: per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana non siederà in parlamento non solo nessun comunista, ma neppure un socialista.

Una sonora sconfitta da cui possiamo trarre, tra le altre, questa conclusione: la sinistra italiana necessita di una forza comunista autonoma, che non nasconda i propri simboli, né la propria identità comunista: il rinnegare i simboli è il primo passo per la rinnegazione degli ideali a loro connessi. Emblematica è, a questo proposito, la deriva politico-ideologica che ha attraversato il PCI: i dirigenti liquidazionisti (Occhetto in testa) hanno dato vita al PDS, poi divenuto DS e infine PD, un Partito, quest’ultimo, costituito da miseri figuri, di cui molti addirittura si offenderebbero solo a sentirsi lontanamente definire “di sinistra”!

È per questa ragione che è già in atto una nuova iniziativa, volta alla creazione ex-novo di un partito comunista che dovrebbe raccogliere gran parte delle varie correnti di stampo comunista sotto l’egida di autorevolissimi intellettuali, quali Luciano Canfora, Domenico Losurdo ed altri come Ugo Dotti e Gianni Vattimo , assieme alla presenza di personaggi politici della caratura di Oliviero Diliberto e Fosco Giannini e valorosi operai come Ciro Argentino, della Thyssen Krupp.

L’appello, che pubblichiamo a seguire (pp. 3 sgg.) e che ti invitiamo a sostenere, è stato lanciato il 17 Aprile nei principali quotidiani nazionali e ha già ricevuto ampio consenso e numerose adesioni.

Quella che ci troviamo a dover affrontare è una sfida importante: come l’araba fenice siamo costretti a risorgere dalle nostre ceneri, mettendo insieme i tasselli dell’edificio ormai crollato per costruirne uno nuovo, magari in grado di resistere agli scossoni che hanno distrutto il primo.


N.S. e L.P.




SOMMARIO:


* A.A.V.V. Comuniste e comunisti, cominciamo da noi

[Appello pubblicato il 17 aprile sui principali quotidiani italiani]

* Stefano G. Azzarà Uniamo i comunisti, ripartiamo dall’opposizione

[Comunisti oggi: che fare?]

* Leonardo Pegoraro Urbino e la chiusura obbligatoria dei locali per le due

[I giovani a Urbino. Una proposta costruttiva]

* Id.,(a cura di) L’Odissea dei cinque cubani

[Intervista ad Angelo Ferracuti, scrittore marchigiano]

* Nicola Serafini La tirannide nella Grecia arcaica

[Disamina storica del fenomeno e dei suoi effetti “positivi”]

* Leonardo Pegoraro I pellerossa

[I pellerossa fra massacri, deportazioni e apartheid dai primi dell' 800 ad oggi]

* Emiliano Alessandrini Paolo Volponi e la questione ecologica

[La contraddizione capitale/ambiente in ambito letterario]

* Nicola Serafini Commentaria in Leonardum Pegorarum componere

[Analisi e commento di una poesia composta da Leonardo Pegoraro]

* Id. Eco e Narciso

[Breve rielaborazione del mito greco di Eco e Narciso]

* Jacopo Torrico Erinnidi e Poesia del figlio dell’uomo

[Poesie]


***


COMUNISTE E COMUNISTI

COMINCIAMO DA NOI

Dopo il crollo della Sinistra Arcobaleno, ci rivolgiamo ai militanti e ai dirigenti del Pdci e del Prc e a tutte le comuniste/i ovunque collocati in Italia

Siamo comuniste e comunisti del nostro tempo. Abbiamo scelto di stare nei movimenti e nel conflitto sociale.

Abbiamo storie e sensibilità diverse: sappiamo che non è il tempo delle certezze.

Abbiamo il senso, anche critico, della nostra storia, che non rinneghiamo; ma il nostro sguardo è rivolto al presente e al futuro. Non abbiamo nostalgia del passato, semmai di un futuro migliore.

Il risultato della Sinistra Arcobaleno è disastroso: non solo essa ottiene un quarto della somma dei voti dei tre partiti nel 2006 (10,2%) - quando ancora non vi era l’apporto di Sinistra Democratica - ma raccoglie assai meno della metà dei voti ottenuti due anni fa dai due partiti comunisti (PRC e PdCI), che superarono insieme l’8%. E poco più di un terzo del miglior risultato dell’8,6% di Rifondazione, quando essa era ancora unita.

Tre milioni sono i voti perduti rispetto al 2006. E per la prima volta nell’Italia del dopoguerra viene azzerata ogni rappresentanza parlamentare: nessun comunista entra in Parlamento.

Il dato elettorale ha radici assai più profonde del mero richiamo al “voto utile”, tra cui risaltano la delusione estesa e profonda del popolo della sinistra e dei movimenti per la politica del governo Prodi e l’emergere in settori dell’Arcobaleno di una prospettiva di liquidazione dell’autonomia politica, teorica e organizzativa dei comunisti in una nuova formazione non comunista, non anti-capitalista, orientata verso posizioni e culture neo-riformiste. Una formazione che non avrebbe alcuna valenza alternativa e sarebbe subalterna al progetto moderato del Partito democratico e ad una logica di alternanza di sistema.

E’ giunto il tempo delle scelte: questa è la nostra

Non condividiamo l’idea del soggetto unico della sinistra di cui alcuni chiedono ostinatamente una “accelerazione”, nonostante il fallimento politico elettorale. Proponiamo invece una prospettiva di unità e autonomia delle forze comuniste in Italia, in un processo di aggregazione che, a partire dalle forze maggiori (PRC e PdCI), vada oltre coinvolgendo altre soggettività politiche e sociali, senza settarismi o logiche auto-referenziali.

Rivolgiamo un appello ai militanti e ai dirigenti di Rifondazione, del PdCI, di altre associazioni o reti, e alle centinaia di migliaia di comuniste/i senza tessera che in questi anni hanno contribuito nei movimenti e nelle lotte a porre le basi di una società alternativa al capitalismo, perché non si liquidino le espressioni organizzate dei comunisti ed anzi si avvii un processo aperto e innovativo, volto alla costruzione di una “casa comune dei comunisti”.

Ci rivolgiamo:

- alle lavoratrici, ai lavoratori e agli intellettuali delle vecchie e nuove professioni, ai precari, al sindacalismo di classe e di base, ai ceti sociali che oggi “non ce la fanno più” e per i quali la “crisi della quarta settimana” non è solo un titolo di giornale: che insieme rappresentano la base strutturale e di classe imprescindibile di ogni lotta contro il capitalismo;


- ai movimenti giovanili, femministi, ambientalisti, per i diritti civili e di lotta contro ogni discriminazione sessuale, nella consapevolezza che nel nostro tempo la lotta per il socialismo e il comunismo può ritrovare la sua carica originaria di liberazione integrale solo se è capace di assumere dentro il proprio orizzonte anche le problematiche poste dal movimento femminista;

- ai movimenti contro la guerra, internazionalisti, che lottano contro la presenza di armi nucleari e basi militari straniere nel nostro Paese, che sono a fianco dei paesi e dei popoli (come quello palestinese) che cercano di scuotersi di dosso la tutela militare, politica ed economica dell’imperialismo;

- al mondo dei migranti, che rappresentano l’irruzione nelle società più ricche delle terribili ingiustizie che l’imperialismo continua a produrre su scala planetaria, perchè solo dall’incontro multietnico e multiculturale può nascere - nella lotta comune - una cultura ed una solidarietà cosmopolita, non integralista, anti-razzista, aperta alla “diversità”, che faccia progredire l’umanità intera verso traguardi di superiore convivenza e di pace.

Auspichiamo un processo che fin dall’inizio si caratterizzi per la capacità di promuovere una riflessione problematica, anche autocritica. Indagando anche sulle ragioni per le quali un’esperienza ricca e promettente come quella originaria della “rifondazione comunista” non sia stata capace di costruire quel partito comunista di cui il movimento operaio e la sinistra avevano ed hanno bisogno; e come mai quel processo sia stato contrassegnato da tante divisioni, separazioni, defezioni che hanno deluso e allontanato dalla militanza decine di migliaia di compagne/i. Chiediamo una riflessione sulle ragioni che hanno reso fragile e inadeguato il radicamento sociale e di classe dei partiti che provengono da quella esperienza, ed anche gli errori che ci hanno portati in un governo che ha deluso le aspettative del popolo di sinistra: il che è pure all’origine della ripresa delle destre. Ci vorrà tempo, pazienza e rispetto reciproco per questa riflessione. Ma se la eludessimo, troppo precarie si rivelerebbero le fondamenta della ricostruzione. Il nostro non è un impegno che contraddice l’esigenza giusta e sentita di una più vasta unità d’azione di tutte le forze della sinistra che non rinunciano al cambiamento. Né esclude la ricerca di convergenze utili per arginare l’avanzata delle forze più apertamente reazionarie. Ma tale sforzo unitario a sinistra avrà tanto più successo, quanto più incisivo sarà il processo di ricostruzione di un partito comunista forte e unitario, all’altezza dei tempi. Che - tanto più oggi - sappia vivere e radicarsi nella società prima ancora che nelle istituzioni, perché solo il radicamento sociale può garantire solidità e prospettive di crescita e porre le basi di un partito che abbia una sua autonoma organizzazione e un suo autonomo ruolo politico con influenza di massa, nonostante l’attuale esclusione dal Parlmento e anche nella eventualità di nuove leggi elettorali peggiorative.

La manifestazione del 20 ottobre 2007, nella quale un milione di persone sono sfilate con entusiasmo sotto una marea di bandiere rosse coi simboli comunisti, dimostra – più di ogni altro discorso – che esiste nell’Italia di oggi lo spazio sociale e politico per una forza comunista autonoma, combattiva, unita ed unitaria, che sappia essere il perno di una più vasta mobilitazione popolare a sinistra, che sappia parlare - tra gli altri - ai 200.000 della manifestazione contro la base di Vicenza, ai delegati sindacali che si sono battuti per il NO all’accordo di governo su Welfare e pensioni, ai 10 milioni di lavoratrici e lavoratori che hanno sostenuto il referendum sull’art.18.

Auspichiamo che questo appello – anche attraverso incontri e momenti di discussione aperta - raccolga un’ampia adesione in ogni città, territorio, luogo di lavoro e di studio, ovunque vi siano un uomo, una donna, un ragazzo e una ragazza che non considerano il capitalismo l’orizzonte ultimo della civiltà umana.

www.comunistiuniti.it

adesioni@comunistiuniti.it

Vi invitiamo ad aderire e far aderire!

Grazie e buon lavoro a tutte e tutti

I Promotori




Uniamo i comunisti, ripartiamo dall’opposizione

di Stefano G. Azzarà


Bastano due anni di partecipazione al governo per distruggere un partito come Rifondazione, per quanto fragile e poco radicato esso sia in quelle classi che pure pretenderebbe di rappresentare?

Certamente l’esperienza del governo è stata devastante, come l’area dell’Ernesto, ancora unita prima della sua lacerazione, aveva ampiamente previsto in occasione del congresso di Venezia. Sia chiaro: il nostro atteggiamento non è mai stato quello di un rifiuto pregiudiziale ed estremistico delle alleanze e dell’assunzione di responsabilità politico-amministrativa. Sia per quanto riguarda il governo nazionale che per gli enti locali, il criterio fondamentale è quello dei contenuti e dei programmi. Si tratta di volta in volta di capire se, nella situazione concreta, è possibile attraverso un coinvolgimento diretto ottenere dei risultati politici tangibili su alcuni punti nodali che consentano di approfondire il rapporto tra il partito e la sua base sociale. E’ evidente che se i rapporti di forza sono particolarmente squilibrati e se gli eventuali partner di governo risultano impermeabili ad ogni mediazione “alta”, le condizioni di un’alleanza non ci sono. Era questo il caso dell’Unione, all’interno della quale le divergenze tra le forze politiche avevano una natura strategica e non meramente contingente.

Sin dall’inizio, il governo Prodi si presentava come una sorta di “fronte unico” la cui base materiale era un’improbabile alleanza tra il lavoro dipendente e un pezzo di quella borghesia italiana “stracciona” e sempre più legata alla rendita finanziaria i cui interessi sono opposti a quelli del mondo lavoro. Un fronte la cui ragion d’essere era rappresentata dal tentativo di impedire il ritorno delle destre al governo. Un proposito di per sé nobile ma insufficiente a costituire una controtendenza rispetto a quelle spinte neoliberiste che da almeno tre decenni attraversano il nostro paese e che la presenza di Rifondazione nell’Unione poteva al massimo rallentare ma non certo invertire, data la debolezza di questo partito. Per stringere un’alleanza di governo sarebbero stati necessari quantomeno dei “paletti” programmatici condivisi su alcune questioni di fondo, come una elementare politica economica di tipo redistributivo e una politica estera di sganciamento dall’egemonia statunitense. Proprio su questi punti, però, nessuna condivisione con gli alleati era possibile e non solo per l’indisponibilità di DS e Margherita verso una politica neokeynesiana minima: la fase in corso, che vede il dispiegarsi di una sconfitta storica delle classi subalterne, non consente infatti alcun “patto dei produttori” (se mai la borghesia ulivista può essere considerata tale) né alcun processo di redistribuzione della ricchezza; al tempo stesso, non sembrano esserci le condizioni per una messa in discussione dello statuto semicoloniale del nostro paese, nel quale, come è noto, sono presenti oltre 100 basi militari della NATO.

Nonostante il sano realismo politico lo sconsigliasse, la maggioranza di Rifondazione – con un’operazione simile ad un golpe interno, che ha imposto dentro il partito il principio maggioritario – forte di un risicato 59%, ha portato il partito al governo infilandolo in un vicolo cieco. Una volta stretto il patto con Prodi, patto sancito dalla presidenza della Camera affidata a Bertinotti, Rifondazione si è legata mani e piedi alle sorti del governo.

Già dai primi mesi lo scenario era chiaro: governare avrebbe significato condividere scelte duramente antipopolari che avrebbero intaccato il nostro consenso; rompere, come nel 1998, avrebbe comportato un isolamento e una demonizzazione del partito dagli esiti imprevedibili. Stretto in questa morsa, il partito ha continuato a salmodiare la vulgata di Venezia, che prometteva una potente spinta esterna da parte dei movimenti sociali, e a raccontare la menzogna di un governo attento alle ragioni dei più deboli (“Anche i ricchi piangano”). Per due anni ci siamo divisi a discettare sulla natura dei provvedimenti varati dal governo, senza accorgerci che il terreno ci franava sotto i piedi. Nel frattempo arrivavano due finanziarie che, date le distorsioni del sistema fiscale italiano, dicevano di ridurre le aliquote più basse ma favorivano gli evasori fiscali, aggravando le imposte sul lavoro dipendente. Veniva peggiorata la riforma Maroni delle pensioni, con uno scaglionamento che innalzava ulteriormente l’età pensionabile. Nulla veniva fatto contro la precarietà e la legge 30 rimaneva inalterata. In queste condizioni, la manifestazione del 20 ottobre contro il pacchetto welfare seguito al referendum sindacale si è ovviamente trasformata in un boomerang: abbiamo portato un milione di persone in piazza contro le scelte del governo pur sapendo che pochi giorni dopo le avremmo avallate in Consiglio dei Ministri per poi approvarle in aula. Abbiamo cioè preso per i fondelli la nostra stessa gente, che, ovviamente, ci ha poi voltato le spalle. Il rapporto con i movimenti veniva nel frattempo completamente azzerato dalla vicenda della base americana di Vicenza, alla quale il governo ha dato via libera nonostante le proteste della popolazione locale. Il rifinanziamento della missione in Afghanistan faceva il resto.

Questa è la ragione principale della scomparsa dei comunisti dal parlamento: dopo aver fatto l’esatto contrario di ciò che per anni avevano detto, essi sono diventati poco credibili. Non sono stati capaci di difendere gli interessi delle classi subalterne che, nel momento delle elezioni, hanno preferito esprimere un forte voto di protesta e rivolgersi a chi, come la Lega, pur muovendo da presupposti sbagliati e in forme regressive, dimostra di saper svolgere efficacemente, come ha spiegato il sociologo Aldo Bonomi, il ruolo di “sindacato territoriale”. Oppure hanno preferito esprimere un voto utile contro Berlusconi e hanno votato Veltroni, comportandosi del resto coerentemente con le scelte strategiche suggerite dalla stessa Rifondazione con il suo comportamento in occasione dell’alleanza del 2006. Chi, momento per momento, aveva messo in guardia il partito dalla catastrofe che si stava preannunciando, è stato emarginato e minacciato di espulsione. Spiegare la sconfitta, come incredibilmente qualcuno nel partito fa, dicendo che gli elettori hanno punito la nostra irresponsabilità, il nostro eccessivo scalpitare e protestare contro le scelte del governo, significa far propria l’analisi del Partito Democratico e chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

Un ruolo non secondario nella sconfitta elettorale ha poi avuto la scelta del partito di cancellare la presenza politica dei comunisti varando un’alleanza, la Sinistra Arcobaleno, che sarebbe stata destinata a trasformarsi in un nuovo partito unico della sinistra. Un partito nel quale il comunismo sarebbe decaduto a mera “tendenza culturale” tra le altre. E’ stata una scelta infausta, calata dall’alto, che ha comportato la messa in mora della democrazia interna e il rinvio sine die del congresso. Una scelta che è stata vissuta dai militanti come l’anticamera dello scioglimento e che ci ha costretti a presentarci assieme a forze come i Verdi, rispetto alle quali un abisso di moralità politica ci separa. Ma, al di là di questo aspetto, il profilo politico-programmatico dell’alleanza era estremamente fragile. Il programma elettorale parlava di un mero “superamento” della Legge 30, esattamente ciò che si diceva nel programma dell’Unione, che ci vedeva alleati con Rutelli. Per quanto riguarda le questioni internazionali, il programma sosteneva la nostra disponibilità ad accettare interventi militari sotto l’egida dell’ONU. E’ chiaramente il prezzo pagato a forze come i Verdi e Sinistra Democratica, ed è un prezzo funzionale ad una mutazione genetica del partito, instradato dal suo gruppo dirigente sulla china della decomunistizzazione. Anche in questo caso, chiunque dissentisse dalla linea veniva invitato a togliere il disturbo.

E veniamo al punto più importante. Se tutto ciò che abbiamo detto ha avuto un ruolo non indifferente nel determinare l’esito elettorale, bisogna però aggiungere che a monte di questi errori c’è qualcosa di più e di più grave. C’è un processo di mutazione del partito, di devastazione culturale e politico-organizzativa che è in corso almeno dalla metà degli anni Novanta. E’ un processo che si è dipanato progressivamente ma in modo inesorabile e che è passato per il superamento del leninismo, per la contestazione della categoria di imperialismo, per il rifiuto della forma-partito, per la messa in discussione di tutti i fondamenti teorici del materialismo storico. Il partito è stato in questi anni programmaticamente e scientificamente disarmato. Sono stati costruiti per cooptazione gruppi dirigenti fedeli ai leader ma assolutamente incapaci di condurre un’analisi della fase realistica, che avesse un minimo di plausibilità. E’ stata costruita artificialmente una cultura ibrida, eclettica, ispirata alle suggestioni di sinistra più vaghe e indeterminate dichiarando superata la centralità della contraddizione capitale-lavoro. Si è sperato che il movimento no global potesse fornire una nuova teoria e una nuova visione del mondo, rimuovendo il fatto che invece esso aspettava dai marxisti e dai comunisti una ricomposizione unitaria delle diverse istanze che lo animavano. Si è poi apertamente teorizzata l’obsolescenza dell’orizzonte comunista e la necessità di un suo superamento in una aggregazione di sinistra che si pretendeva radicale e alternativa.

Oggi la Sinistra Arcobaleno non esiste più. Siamo però certi che se avesse superato lo sbarramento del 4% la maggioranza del partito avrebbe presentato questo risultato come un grande successo e avrebbe proseguito indisturbata nella sua opera di smantellamento del partito. E’ anche per questo che risultano poco credibili, oggi, le posizioni di chi, come Ferrero e Mantovani, hanno sempre condiviso la linea di Bertinotti. Da 14 anni Ferrero e Mantovani fanno parte della maggioranza che governa in maniera ferrea il partito e hanno anzi contribuito attivamente a creare la cultura bertinottiana che ne ha sinora costituito la linfa. Hanno condiviso lo smantellamento di tutti i riferimenti al comunismo novecentesco, hanno condiviso il movimentismo spontaneista degli anni 1998-2005 e poi il moderatismo governista della fase successiva. Fino ad alcuni giorni fa Paolo Ferrero era ancora un ministro in carica. A quanto dice Franco Giordano, è stato proprio Ferrero a impedire l’uscita del partito dal governo nel momento di prendere posizione sul pacchetto welfare. Mantovani, poi, ha sempre rifiutato l’ipotesi di votare contro il rifinanziamento delle missioni militari italiane. Con quale coraggio pretendono oggi di rappresentare un’alternativa?

Del tutto strumentale sembra poi l’alleanza di Ferrero e Mantovani con l’area di Essere Comunisti, rispetto alla quale un abisso politico-culturale la separa. Ricordiamo che solo pochi anni fa Mantovani accusava quest’area di essere “piombo nelle ali” del partito-movimento e chiedeva un’epurazione generalizzata affermando che “il pesce puzza dalla testa”. Già dalla Conferenza organizzativa di Carrara, però, l’area di Claudio Grassi ha intrapreso una deriva moderata che l’ha portata a rompere l’unità dell’opposizione interna al partito per cercare un accordo di potere con la maggioranza bertinottiana. Adesso si presenta per Grassi l’occasione di entrare a pieno titolo nella maggioranza, proponendo dei semplici emendamenti alla mozione di Paolo Ferrero e accodandosi al progetto di quella parte del partito che proviene da Democrazia Proletaria.

Ma cosa vuole poi Paolo Ferrero? Che futuro prefigura per Rifondazione e per i comunisti? C’è davvero differenza tra la sua proposta e quella della corrente, oggi minoritaria, che fa capo a Bertinotti? Tra la copia e l’originale, quest’ultimo ha senza dubbio il pregio della coerenza. E in effetti Vendola, Giordano e Migliore propongono senza mezzi termini di portare a compimento il percorso di “innovazione” bertinottiana del partito rilanciando la prospettiva di una forza di sinistra non comunista e ispirata al socialismo libertario. E’ una scelta che consideriamo errata ma che viene quantomeno esposta senza ipocrisie. Ferrero e Mantovani annunciano invece di voler partire da Rifondazione, ma per riproporre il modello della Sinistra Europea, nel quale Rifondazione è soltanto un partner alla pari di altri soggetti non meglio identificati, in una aggregazione federativa di natura non comunista. In questo nuovo soggetto, le decisioni verranno prese da un coordinamento nazionale paritetico, rispetto al quale il partito rimarrà una scatola vuota, un giocattolo per i suoi militanti, che potranno accontentarsi di simboli, nomi e colori privi ormai di senso. Mentre Vendola propone la Sinistra Arcobaleno subito, in altre parole, Ferrero vuol dare il tempo al partito per metabolizzare questa mutazione e si propone di mantenerlo artificialmente in vita, almeno sul piano formale, finché i militanti non saranno pronti alla nuova svolta.

Anche per quanto riguarda le politiche concrete, non sembra esserci differenza tra le proposte dei due pezzi dell’ex maggioranza. Entrambe le correnti hanno guardato subito con grande interesse alle manovre di D’Alema, il quale cerca di indebolire le posizioni di Veltroni dentro il PD e di riesumare una linea di alleanze, che, nella prospettiva dell’ex Ministro degli Esteri, dovrebbero essere strette sia con la Sinistra Arcobaleno, sia con l’UDC di Casini, delineando uno scenario ancora più sbilanciato in senso centrista di quanto non fosse la vecchia e defunta Unione.Via libera dunque alle alleanze negli enti locali e via libera ad una collaborazione subalterna dell’opposizione extraparlamentare con quella “opposizione di sua maestà” rappresentata dal PD. E’ chiaro che, se questo è l’orientamento comune, Vendola e Ferrero dimostrano di non aver affatto compreso la natura profonda della sconfitta subita e si preparano a reiterare esattamente la stessa linea catastrofica che ci ha portato a questo risultato. Se questo è il quadro, il conflitto tra i due pezzi dell’ex maggioranza risulta incomprensibile e si configura, più che altro, come una guerra tra bande per il potere interno al partito.

La vera domanda è però un’altra. Che senso ha, nello scenario disegnato da Ferrero, mantenere in piedi Rifondazione? Il partito sarebbe privo di qualunque autonomia politica, visto che il vero livello decisionale sarebbe quello della federazione. Esso si presenterebbe alle elezioni, poi, con un simbolo diverso, probabilmente quello della Sinistra Europea. Sarebbe un partito serio questo? Si capisce allora che il vero motivo per conservare il simulacro di Rifondazione è un altro. E’ unicamente quello di ostacolare l’unica strada veramente credibile che abbiamo oggi di fronte. Una strada che è quella dell’unità dei comunisti e della loro rifondazione. E’ questa la proposta che faremo al congresso del PRC: una proposta di unità e di autonomia, come era nel dna del nostro partito al momento della sua nascita.

Ha senso, oggi, che vivano separati un partito come Rifondazione e uno come i Comunisti Italiani? Esistono differenze tra questi soggetti? Se pure esse c’erano nel momento della scissione del 1998, oggi sono completamente inessenziali. I rancori personali non dovrebbero intorbidire l’analisi dei fatti. Se i Comunisti Italiani si erano caratterizzati negativamente per un atteggiamento moderato, se il “cossuttismo” era il loro peccato originale, oggi questa posizione sembra allignare più in Rifondazione e nei fautori della Sinistra Arcobaleno che nel PdCI. Inoltre, la proposta che presentiamo non consiste nella mera riunificazione burocratica di questi soggetti. Proponiamo un percorso costituente ampio, che parta da questi due partiti ma che si proponga di costruire un partito comunista più largo recuperando l’enorme diaspora di compagni che si è prodotta in quasi 20 anni. Proponiamo che in questo percorso tutto venga rimesso in discussione e che dal basso si proceda ad un rinnovamento anche generazionale dei quadri dirigenti. Proprio coloro che più si sono riempiti la bocca con il tema dell’”unità della sinistra” rifiutano invece oggi quell’unità che risulta più necessaria ed urgente, l’unità dei comunisti preludio della nascita di una forza comunista dignitosa.

Proponiamo inoltre, cosa non secondaria, che il percorso costituente comunista porti ad una forza che ritrovi la propria autonomia e si collochi senza ambiguità nel campo dell’opposizione sociale e politica. I comunisti devono recuperare la propria ragion d’essere principalmente nel conflitto sociale e devono rimettersi in sintonia con i bisogni e le esigenze di quelle classi che, altrimenti, sarebbero risucchiate in un processo di degenerazione culturale e di conflittualità regressiva verso soggetti ancora più deboli di loro, come i migranti, e rivolgerebbero le loro attenzioni verso forze di destra o verso la protesta populista e antipolitica. Per contrastare questo esito è necessaria una coerenza che ci riporti ad essere un partito che sceglie di stare dalla parte dei più deboli. Un partito che faccia del conflitto tra il lavoro e il capitale la base della propria politica di massa. Un partito che si inserisca nelle lotte dei precari per il riconoscimento del valore del loro lavoro. Un partito che stia a fianco dei migranti. Un partito che difenda i servizi pubblici ad ogni livello. Un partito che appoggi la causa dell’indipendenza nazionale dei popoli quotidianamente sottomessi agli attacchi dell’imperialismo. Un partito che non conosca contraddizioni tra ciò che dice e ciò che fa.

E veniamo con ciò alle questioni locali. Ci dice nulla la sconfitta politica subita, rispetto alla nostra presenza in città? Urbino è una città in declino, sempre più triste e abulica, mentre crescono il disagio economico-sociale e il precariato. La città affronta una grave crisi di identità ma la classe dirigente locale non se ne accorge. Incapace di pensare un modello di sviluppo alternativo, sembra prigioniera delle lobbies della speculazione edilizia e dell'evasione fiscale. La Giunta che sosteniamo poteva essere ricordata per il fotovoltaico su tutti gli edifici pubblici, per la raccolta differenziata, per aver investito sulla cultura rilanciando il turismo; lo sarà invece per aver svenduto le proprietà pubbliche e speso più di 20 milioni per realizzare il centro commerciale di S. Lucia e i suoi parcheggi a pagamento.

Il programma è stato realizzato solo in parte (qualcuno si ricorda delle richieste della sinistra, come il sostegno all'associazionismo, il bilancio partecipato o la consulta dei migranti?). Inoltre, su questioni strategiche come S. Lucia, l'Azienda Unica e il dimissionamento di Santini, DS e Margherita hanno deciso da soli e contro il parere degli alleati. E' per questo che PRC, PdCI, SDI e SD avevano aperto una crisi di maggioranza e chiesto una verifica politico-programmatica. Questa verifica si è chiusa negativamente, con il Sindaco che sostiene che tutto va bene, parole fumose sui programmi, una netta chiusura sul reintegro di Santini. A questo si è aggiunto nel frattempo un consistente taglio ai servizi sociali.

Cosa ha ottenuto Rifondazione sostenendo questa Giunta? Il lavoro dell'Assessorato alle Attività produttive è importante ma sui problemi veri il partito non è riuscito a incidere e il suo parere vale zero. Rifondazione appare appiattita sul PD e questo la rende incapace di ascoltare il disagio sociale che cresce in città. Lo stesso partito si sente umiliato ed è in forte sofferenza.

Di fronte all'arroganza del PD, la dignità conta più di qualche progetto o cofinanziamento. Chiediamo perciò che Rifondazione esca al più presto dalla maggioranza. Senza rinunciare alla sua identità comunista e ai suoi simboli e senza sciogliersi in un contenitore indistinto, deve lavorare sin d'ora all'unità e cioè ad un patto d'azione comune delle sinistre che costruisca nelle prossime elezioni uno schieramento alternativo al PD. A Urbino c'è bisogno di una forte opposizione di sinistra. Oggi stare all'opposizione è certamente più difficile che gestire il potere (per quanto un potere minuscolo) ma non deve essere questo a spaventarci.


Urbino e la chiusura obbligatoria per le 2.00:

e se Marx venisse in aiuto della musica?*

Le scelte coatte sui locali non favoriscono concerti e alternative socioculturali

di Leonardo Pegoraro

Alle 2.00 i battenti dei locali che si trovano all'interno delle mura vanno chiusi. Così l'ordinanza che il Comune di Urbino ha emesso un anno fa per garantire l'ordine pubblico notturno. Se è vero infatti che noi giovani siamo una risorsa, non solo economica, per la città è vero anche che quando "disturbiamo" i cittadini durante le ore notturne costituiamo un problema reale. Specie poi se alcuni si danno a veri e propri atti di vandalismo e violenza. Ma come spesso accade quando si sceglie la strada delle soluzioni coatte, l'obbligo di chiusura preventiva dei locali non ha certo sortito gli effetti sperati. Questo per una serie di contraddizioni come il fatto che sono esenti da tale obbligo, in quanto disco-pub, il "Makkia" e l'"It Glamour Pub" che, appena fuori dalle mura della città, ben si prestano a raccogliere chi dal centro esce dai locali in chiusura, ma non il bar "la Stazione", parecchio distante dalle mura, il quale oltretutto due volte la settimana investiva sulla musica dal vivo. Premiando, di fatto, la cultura musicale del dj a discapito di quella "live", non si è infatti scelta la strada, più saggia, di offrire a noi giovani alternative socio-culturali. Se infatti avessimo di che svagarci forse alcuni di noi non si darebbero più a quegli atti tipici di un gratuito alcolismo. Verrebbe meno la triste scelta obbligata di trascorrere le nostre notti urbinati soli in compagnia dell'alcol, se di tanto in tanto avessimo la possibilità di assistere ad un concerto o, ad esempio, ad una presentazione notturna di un libro con tanto di lettura da parte dell'autore, senza nulla togliere ad altre forme artistiche di intrattenimento. Allora che fare? Forte della proposta di legge sulla musica che Rifondazione, sull'originaria istanza e sulla spinta di Audiocoop, presenterà a gennaio, una ordinanza eretta a stile di vita, volta a promuovere davvero l'interesse reciproco dei diversi soggetti chiamati in causa (giovani, locali e cittadini), dovrebbe dire: "Tu, gestore del locale, vuoi tenere aperto un'ora in più? Bene, lo puoi fare ma solo se intrattieni i tuoi clienti promuovendo attività artistiche come la musica dal vivo". Questa ipotetica ordinanza dovrebbe cioè agevolare quei locali che si impegnano ad ospitare band musicali od altre performance artistiche, permettendo di tenere aperto un'ora in più e di rifarsi così delle spese dovute alla retribuzione degli artisti ingaggiati. Di più: nell'organizzazione, coordinamento e controllo della buona riuscita dell'eventuale realizzazione di questa proposta, potrebbero farla da protagoniste le associazioni culturali della città, giovanili e senili, senza così gravare direttamente sull'amministrazione comunale. Le modalità? Tutte da studiare e mettere nero su bianco. Colorando di musica le notti urbinati invece di renderle grigie con l'obbligo di chiusura anticipata, noi nottambuli potremmo dare il meritato riposo all'ordine pubblico notturno, categoria abusata. Non è stato forse Marx a insegnarci che essere radicali significa andare sempre all'origine del problema? Allora proviamoci. E vediamo se i risultati ci daranno ragione.



* Pubblicato già su Liberazione del 15/12/2007.



L’odissea dei cinque cubani.

di Leonardo Pegoraro

Intervista allo scrittore marchigiano Angelo Ferracuti.

Nel settembre del 1998 i cubani René González, Fernando González, Gerardo Hernández, Ramón Labañino e Antonio Guerrero furono arrestati a Miami. Le autorità giudiziarie della Florida li hanno accusati di aver svolto attività di spionaggio trasmettendo a Cuba informazioni relative alla difesa nazionale degli Stati Uniti, le quali avrebbero fatto correre gravi rischi al paese e alla sua popolazione. Ma i Cinque, al processo, non hanno negato le proprie attività volte invece a contrastare il terrorismo statunitense che da decenni colpisce l’isola della Revoluciòn, causando la morte di circa 3500 civili cubani.

Tu figuri tra i sostenitori dell’appello per la liberazione di questi cinque cubani detenuti nelle carceri statunitensi da ben nove anni. Cosa ti ha spinto a firmarlo?

Ho firmato quell’appello perché seguendo la vicenda sui giornali, soprattutto sul Manifesto, e sui siti internet, mi sono fatto l’idea che è una storia allucinante. Nove anni di prigione, torture fisiche, pressioni psicologiche come solo nelle carceri americane sanno fare con sadica scientificità (abbiamo tutti visto lo “spettacolo” di Guantanamo). E poi sappiamo cos’è la “giustizia” americana, soprattutto quando ha a che fare con gli oppositori politici, basti pensare al caso Baraldini. Tanto che su questa vicenda si è espressa con molta decisione anche la scrittrice sudafricana Nadine Gordimer in una lettera spedita al New York Times, dove paragona la vicenda a quelle del suo paese ai tempi dell’apartheid, e anche altri premi nobel come Pinter e Soyinka.

I Cinque hanno combattuto contro lo stesso terrorismo (tra l’altro senz’armi e al solo fine di prevenirlo) contro cui combatte il governo di Washington, almeno a parole. Peccato, però, che agissero contro il terrorismo sbagliato, quello “buono”. Due pesi e due misure?

Ovviamente. Basta pensare alla criminale guerra in Iraq, alle migliaia di vittime tra la popolazione civile. In “Un uomo senza patria” lo scrittore Kurt Vonnegut affermava: "In caso non l'aveste notato, oggi noi americani siamo temuti e odiati in tutto il mondo proprio come lo erano un tempo i nazisti". Questo credo si stia facendo largo anche nella coscienza della gente negli Stati Uniti.

Fin dall’inizio i media mainstream hanno eluso la storia dei Cinque: su tutti, il New York Times. In Italia, ad esempio, il Corriere della Sera non le ha dedicato una sola riga e la Repubblica l’ha data in una “breve” senza peraltro menzionare il motivo per cui quei cubani si trovavano in Florida. Perché tanto silenzio?

Infatti è una storia che in pochissimi conoscono. Il silenzio colpevole e vergognoso della stampa occidentale su questo, come su altri fatti, è legato a interessi sia politici che economici come tutti sappiamo, quindi c’è una manipolazione molto forte sui mezzi di comunicazione da parte dei cosiddetti poteri forti, che sono poteri e intrecci internazionali. Su Cuba c’è una rimozione non credo perché costituisca un pericolo di tipo strategico-militare, ma è dovuta al fatto che rappresenta qualcosa di simbolico, una sorta di avamposto resistente che poi è servito come un esempio in America latina per altri paesi come il Brasile o il Venezuela, e per tutti quelli che in occidente detestano la società americana, credono a un superamento del sistema capitalistico, e nonostante tutte le sconfitte, vogliono ancora almeno immaginare come possibile una società più egualitaria.




La tirannide nella Grecia arcaica

di Nicola Serafini

In tutte le città greche in cui nei secoli VII e VI si instaura un regime in cui una persona si impossessa del potere e lo conserva con la forza, il suo capo viene sempre designato con un nuovo nome: tyrannos (tuvrannoç), tiranno.

Il termine di certo ha origini non greche. Ha paralleli – e forse da questo deriva – con il sanscrito turangos, ma anche con l’etrusco turan. La prima attestazione la troviamo in Archiloco (fr. 19 West), il quale lo usa a proposito di Gige, re lidio, ed è possibile che questo termine possa essere stato mutuato dalla lingua lidia.

In ogni caso, per un lunghissimo periodo questo vocabolo non ebbe il senso negativo che noi oggi gli attribuiamo: questo inizia a comparire solo nei pensatori politici del IV secolo, di certo influenzati dalla nuova forma di tirannide, molto più sfrenata di quella arcaica, e da questa alquanto differente.

Questo regime si manifesta in zone piuttosto distinte del mondo greco, ed anzi, per essere più precisi, possiamo dire che esso appare solo in città molto evolute dal punto di vista politico, sociale ed economico. Per citarne alcuni, Trasibulo a Mileto, alla fine del VII sec., Ligdami a Nasso, ed il famoso Policrate di Samo, che in una decina d’anni, fra il 532 e il 522, portò la sua patria ad una posizione di spicco; poi ancora Cipselo a Corinto, Procle di Epidauro, Teagene di Megara, Falaride di Agrigento, ed infine, solo fra il 561 e il 510 la tirannide giunge ad Atene con Pisistrato e i Pisistratidi, i suoi figli Ippia ed Ipparco.

Ebbene, già Tucidide (I, 13) notava che «con il progresso della potenza greca, e l’accresciuto impegno di accumulare beni, presero piede le tirannidi, di pari passo con l’aumento delle ricchezze».


Questo regime soppiantò l’aristocrazia, e per realizzarlo occorreva solo un uomo ambizioso che potesse appoggiarsi su di una “borghesia” agiata e soprattutto che potesse contare sull’appoggio di un popolo esasperato, vessato dallo strapotere aristocratico. Così Lévêque: «L’esistenza di una grave crisi sociale è dunque la causa prima dell’apparizione della tirannide»; ed ancora: «la tirannide è essenzialmente figlia delle rivendicazioni della nuova borghesia, della miseria del popolo e del coraggio di individui assetati di potere e pronti a tutto pur di riuscire».


La vita politica e sociale

Per quanto riguarda la tirannide arcaica, l’idea che abbiamo è purtroppo antistorica, mediata dal ricordo dei regimi che iniziano a fiorire dal IV secolo a.C. fino ai giorni nostri. In realtà, il quadro era ben diverso, e noi fatichiamo molto a coniugare l’idea di tirannide a qualcosa che non sia pura ignominia, ma a questa altezza cronologica la vera ignominia era costituita dall’oligarchia, che prelevava regolarmente i cinque sesti della produzione agricola del popolo, il quale doveva mantenersi con quel sesto restante. A ben vedere, i contadini erano – per quanto possa suonare inconcepibile questa affermazione – più “tutelati” sotto un tiranno, il quale non di rado mirò ad aggraziarsi il popolo per poter intraprendere la carriera politica. Gli oligarchi, invece, non avevano alcun interesse ad amicarsi il popolo, in quanto il loro “diritto” era semplicemente – a loro avviso – ereditario e scontato.

Ricordiamo che in varie occasioni i contadini stessi furono i beneficiari di alcuni provvedimenti dei tiranni: a Corinto, le terre confiscate da Cipselo – all’inizio della sua “carriera” – vengono distribuite proprio a loro; Pisistrato stesso concede dei prestiti ai piccoli proprietari affinché possano convertire i loro campi in vigneti, incentivando così una produzione maggiore da destinare al commercio estero. Occorre anche notare, per contro, che questi espedienti facilmente miravano anche a “tenere buoni” i contadini stessi, che non avevano alcun diritto di avanzare pretese di alcun genere. Ciò non ostante, senza prescindere dai suoi aspetti negativi, la tirannide – nella Grecia arcaica – assicurò ai piccoli proprietari ed ai contadini una vita molto meno soggetta allo strapotere aristocratico.

Dal punto di vista amministrativo, occorre notare che il tiranno non cambia la costituzione già stabilita. Le vecchie magistrature sono mantenute in funzione, ma affidate a uomini a lui devoti. La boulhv, l’assemblea, e l’ ejkklhsiva, il consiglio, ratificano la nuova politica, anche se si tratta di un procedimento “di facciata”.

L’aristocrazia viene spesso e volentieri perseguitata. A Megara, Teagene si conquista la benevolenza del popolo massacrando le ricche mandrie degli oligarchi, con un atto piuttosto plateale; a Corinto, Cipselo confisca addirittura le terre degli aristocratici per ridistribuirle al popolo, compiendo così un gesto inaudito fino ad allora. La maggior parte degli oligarchi viene esiliata, o parte volontariamente.

Paradossalmente, ma realmente, il popolo vede alleviata – in certa misura – la propria miseria, e le sorti si capovolgono. Ad hoc basta ricordare il poeta della Theognidea (vv. 54 sgg.): «Quelli che, ignari d’ogni legge, portavano pelli caprine attorno ai fianchi, come cervi selvatici, ora sono ottimati [ajgaqoiv]. Quelli che prima erano nobili, ora sono gentame».

I tiranni, d’altro canto, erano perpetuamente esposti all’ostilità più o meno latente degli oligarchi decaduti – sarebbe forse meglio dire “fatti decadere”…–, pertanto cercarono in tutti i modi di consolidare la propria figura, attraverso ogni genere di propaganda. Ma, a ben vedere, queste misure non ebbero il solo risultato di essere fini a se stesse: con numerosissime, vaste e brillanti imprese edilizie, alcuni tiranni fornirono lavoro alle classi artigianali, anche se in queste rientravano le sole mansioni che non potevano venire adempiute dalla manodopera schiavile.

Casella di testo: Figura I - Discobolo (450 a.C.)Ma, checché se ne dica, è sotto la tirannide che si iniziano una miriade di lavori di pubblica utilità: Periandro progetta e fa tracciare una strada che attraversi l’Istmo per trasportare le navi via terra da un mare all’altro – a quell’epoca, infatti, i due mari erano separati da un sottile lembo di terra, per cui bisognava circumnavigare l’intero Peloponneso, oppure trasportare le navi via terra con un complesso sistema di “traino su ruote”–; acquedotti vengono costruiti in più poleis, ad opera di Teagene, Pisistrato, Policrate. Oltre a ciò, bisogna anche contare i monumenti spettacolari, come fontane, obelischi, e quant’altro.

Ma il vero exploit si ha nel campo degli edifici religiosi. Policrate edifica l’Heraion, i Pisistratidi iniziano l’Olympieion, mentre tutti i tiranni inviano doni ed ex voto in quasi tutti i santuari, riempiendoli di statue, opere d’arte e di oreficeria. Ovviamente, nella loro propaganda la religione era la via regia per condurli alla benevolenza del popolo. Ciò è ben mostrato dall’introduzione del culto popolare di Dioniso, introdotto a Corinto e ad Atene dai rispettivi tiranni, un po’ come accadrà diversi secoli dopo a Roma, dove numerosi furono i culti stranieri che furono introdotti con l’unico scopo di “accontentare” e la plebe – il culto di Cibele, della Magna-Mater, o i culti di Iside – e l’esercito – Mitraismo e “culto solare” –.

I tiranni istituiscono feste grandiose e nuove, mai eguagliate in nessuna altra epoca: così Periandro istuisce i giochi istmici; Clistene fonda a Sicione i giochi in onore di Apollo; Pisistrato riorganizza e rinnova le grandiose Panatenee e crea le Grandi Dionisie, in cui si svolgevano gli agoni poetici e drammatici. Gli stessi Pisistratidi promuovono, per la primissima volta nella storia greca, un progetto di “riunificazione” del materiale omerico tramandato oralmente, con l’intento di fornirne una stesura definitiva. Ovviamente, neanche a dirlo, quella velleità era totalmente irrealizzabile – fino al terzo secolo a.C. (e forse oltre) non esisteranno neppure due versioni identiche dei poemi “omerici”–, ma lo sforzo è comunque indice di una mutata sensibilità culturale. Essi ebbero pertanto un ruolo determinante nello sviluppo e nell’evoluzione delle città, della cultura e della religione, e non è affatto corretto il non volerlo ammettere.

I tiranni promossero così una diffusa opera diplomatica, attraverso alleanze e matrimoni puramente utilitaristici: Teagene diede sua figlia in sposa a Cilone; nobili greci e stranieri venivano invitati nelle corti dei tiranni affinché ne corteggiassero le figlie, così che potesse cementarsi l’istituzione della tirannide. Costoro erano consapevoli che se uno di loro fosse decaduto, la catena avrebbe ceduto ovunque, pertanto, nel mondo greco pre-classico esiste una forte solidarietà fra tiranni. Così Pisistrato asseconda le ambizioni di Ligdami, Cilone è sostenuto da Teagene, e Policrate è aiutato a sua volta a prendere il potere dallo stesso Ligdami.

Ovviamente lo scopo dei tiranni era che la tirannide divenisse ereditaria, ma solo in pochissimi casi lo fu. Il carisma individuale del soggetto era la pietra angolare su cui poggiava questo statuto, ed esso non era ovviamente trasmissibile: ciò determinò la delimitazione nel tempo di questo fenomeno.

Notevole è il fatto che lo spodestamento del tiranno avviene solitamente senza violenza alcuna, e addirittura molto rari sono i casi di un suo assassinio, con una vistosa differenza rispetto ai costumi imperiali romani del primi secoli della nostra era.

Per lo più il tiranno, in Grecia, è costretto all’esilio; ma ciò che non si ribadirà mai abbastanza, è che quasi mai l’insurrezione che si scatena contro di lui è fatta dal dh§moç, cioè dal popolo. Occorre anche aggiungere che un ruolo determinante ebbe Sparta in queste rivendicazioni contro la tirannide: la città laconica, fiera della sua oligarchia “egualitaria” – i pochi cittadini aventi pieni poteri erano detti Uguali (Homoioi) e si consideravano tali fra loro –, non depose mai la sua violenta avversione contro questi regimi e si adoperò attivamente alla loro eliminazione.

In ogni caso, quasi ovunque alla tirannide subentra di nuovo l’oligarchia: così ad Epidauro, a Corinto, in Sicilia – dopo i primi tiranni, alla fine del VII sec.; i tiranni dispotici Ierone e Gelone sono ancora di là dal fare la loro comparsa –, a Megara, a Mileto. Ad Atene, invece, l’oligarchia rimessa al potere da Sparta non riesce a resistere, e Clistene conduce la polis attraverso il percorso che la porterà alla democrazia.

Anche gli autori antichi – nella gran parte dei casi –, di certo influenzati da deludenti esperienze posteriori in tal senso, spesso e volentieri dipinsero questi primi tiranni a tinte fosche, riportando solo le loro dubbie qualità morali. Ma non si può non ammettere – con una certa damnatio memoriae – che i privilegi ancestrali dell’aristocrazia erano radicati in maniera fortissima in questi territori, e i tiranni stessi contribuirono ad abolire – o comunque ad affievolire – la presa soffocante e micidiale che questi nobili esercitavano sulle classi inferiori, attraverso una rete di tasse e contributi che minarono la vita di intere generazioni, costrette a versare loro i cinque sesti della loro produzione, e dovendo spesso indebitarsi con quegli stessi nobili che da loro esigevano la “decima”. Unica conseguenza era che, in caso di mancato pagamento, i contadini divenivano schiavi a tutti gli effetti di questi aristocratici, alla loro mercé; questo perlomeno finché Solone non abolì la schiavitù per debiti, ma ciò avvenne ben dopo l’epoca delle prime tirannidi.

Per cui, seppure J.Burckhardt si spinge troppo oltre affermando che in alcuni casi la tirannide fu una sorta di «democrazia anticipata», di certo non possiamo negare che paradossalmente – ripetiamo, paradossalmente – la tirannide fu più “democratica” – nel logoro senso corrente del termine – di quanto non lo fu il potere aristocratico, che in teoria dovrebbe avvicinarsi di più ad una sovranità diffusa di quanto non lo faccia un governo monocratico.*

* [Nell’attesa che qualche avventato lettore – absit iniuria verbo – puntualmente mi accusi di avere steso una sorta di “inno alla tirannide”, travisando non solo il mio intento, ma anche la realtà storica, ci tenevo ad indicare almeno un paio di titoli di riferimento fra le opere moderne che non ho richiamato nel testo: l’imprescindibile Guida alla Storia Greca, di Adalberto Magnelli, Carocci, Roma 2002 – una guida bibliografica utilissima e senza pari–; Domenico Musti, Storia Greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza, Roma-Bari, ult. ed. 2006; Pierre Lévêque, L’aventure grecque, Librairie Armand Colin, Paris, 1964 [trad. it. La civiltà greca, Einaudi, Torino, 1970].
Il non aver ricordato anche gli episodi negativi di tali periodi non è indice di favoreggiamento politico. Semplicemente, con buona pace di chi disapproverà tale scelta, ho voluto parlare di ciò che spesso volutamente si tace, in quanto è talora “scomodo” l’ammettere che certe esperienze storiche comportano anche degli effetti positivi. Poi, ovviamente, si può sempre optare per un ipercriticismo pregiudiziale e sterile: è certo quella la via più comoda. De hoc satis.]



I PELLEROSSA

La muta discesa nel gorgo concentrazionario statunitense*

di Leonardo Pegoraro

Sono venuto al mondo con la pelle color bronzo. Molti miei amici sono nati con la
pelle gialla, nera o bianca. Ci sono fiori dai colori diversi ed ognuno di essi é bello.
Io spero che i miei figli vivano in un mondo in cui tutti gli uomini, di ogni colore,
vadano d’accordo e lavorino insieme, senza che la maggioranza cerchi di uniformare gli altri al proprio volere.

Tatanga Mani Assiniboine (Stoney)

Quanto del mondo concentrazionario è morto e non tornerà più, come la schiavitù e il codice dei duelli?

(Primo Levi)

1. Un macabro curriculum ineguagliato.

Nel 1898 Charles F. Cochran, deputato del Missouri, celebrò l’annessione delle Hawaii come “semplicemente un altro passo nell’avanzata della libertà e della civiltà” e “nella conquista del mondo da parte delle razze ariane”. Fra gli applausi del Congresso continuò sentenziando: il “regno degli ariani, per mezzo della giustizia, della ragione e dell’instaurazione della libertà, penetrerà in ogni angolo abitabile del pianeta”[1] (corsivo mio).

E mentre persino un conservatore xenofobo quale era il giornalista americano E. L. Godkin si scagliava giustamente contro l’ipocrisia di chi si preoccupava del “salvataggio” degli stranieri all’estero e fingeva di non vedere il linciaggio dei neri che si consumava in patria[2], Henry Cabot Lodge - un membro del Congresso, che pure nel 1890 aveva cercato di tutelare il diritto di voto dei neri - dichiarava, purtroppo orgogliosamente e senza alcun accento critico, che gli USA potevano vantare “un curriculum di conquista, colonizzazione ed espansione territoriale mai eguagliato da nessun altro popolo nel XIX secolo”[3]. A pagare le conseguenze di questa furia omicida furono, anzitutto, gli indiani d’America. Aggiunge a tal proposito A. Stephanson: “È ben noto come quelle terre siano state espropriate per mezzo di inganni, intimidazioni, deportazioni, campi di concentramento e omicidi. Si tratta di un istruttivo esempio storico di pulizia etnica[4] (corsivo mio).

Fu così il mondo liberale a rendersi il protagonista di orrori tra i più infami della storia dell’umanità, quali l’ “olocausto” dei neri e, per l’appunto, l’ “olocausto” dei pellerossa. Sarà quest’ultimo, sia pure in estrema sintesi, l’oggetto di questo mio contributo.

È inoltre qui doveroso ricordare, en passant, che gli USA godono di un raccapricciante primato: sono lo Stato che più di ogni altro si macchia di crimini atroci contro l’umanità, detenendo, fra gli altri, il record degli infanticidi di massa! Difatti, solo nel 2008, sono 850.000, di cui più del 50% bambini, gli innocenti morti nei territori occupati dagli USA o dai suoi delegati – a cominciare da Israele[5].

Quindi, non ha poi tanto senso gridare allo scandalo se c’è chi, come Naomi Wolf, afferma che negli Stati Uniti è in atto una svolta fascista[6]. Insomma: anche oggi, per la felicità dei vecchi e dei nuovi Lodge, gli USA godono di un macabro curriculum ineguagliato.

2. Il più grande genocidio della storia.

Nonostante alcuni storici dimostrino che si possa parlare addirittura di 100 milioni risulta comunque difficile stimare con esattezza a quale numero ammontino le vittime dell’ “olocausto americano”[7] - iniziato, convenzionalmente, nel 1492 con la cosiddetta scoperta delle Americhe. Nel giro di qualche secolo esso assicurò, per mano di inglesi, spagnoli, portoghesi ecc. la decimazione di milioni di indigeni del nord America, del Messico, dell’impero andino degli Inca , del Brasile ecc. Ma come spesso avviene quando si devono accertare le reali dimensioni di un genocidio, il dibattito sulle cifre è ancora in corso.

Ad ogni buon conto, ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che, secondo l’eminente opinione di D. Standard e di T. Todorov[8], quello dei pellerossa è stato il più grande genocidio di tutta la storia del genere umano.

Ricostruiremo qui, a partire dai primi decenni dell’ ‘800 fino ad arrivare ai giorni nostri, alcune delle pagine più emblematiche di questa tragedia, che continua tutt’oggi a mietere vittime fra i pochi sopravvissuti, costretti ancora a vivere nelle riserve sotto una sorta di regime di apartheid. Non c’è dubbio: ciò costituisce - assieme ad esempio agli orrori di Abu Graib e Guantanamo - parte dell’odierno universo concentrazionario statunitense.

3. Emerich de Vattel Benjamin Franklin e Alexis de Toqueville. Una singolare idea di proprietà.

Nel XVIII secolo il giurista Emerich de Vattel aveva indicato nell’ “‘obbligo di coltivare la terra’” [9] la risposta ad un grattacapo non da poco che sembrava tormentare le coscienze dei coloni americani: come giustificare sul piano teorico l’occupazione delle terre dei pellerossa senza infrangere quel diritto di proprietà tanto osannato dallo stesso liberalismo? De Vattel, muovendosi sulla stessa lunghezza d’onda di Locke, sosteneva cioè che, in quanto nomadi, i nativi americani non godessero di alcun diritto di proprietà sulle terre da loro abitate. Dopo aver verificato i funesti effetti dell’alcol sui pellerossa, ben si comprendono allora i termini adoperati da Benjamin Franklin per lodare il “rum in quanto ‘strumento deputato’ a realizzare ‘il disegno della provvidenza di estirpare questi selvaggi per fare spazio ai coltivatori della terra’[10] (corsivo mio). Allo stesso modo Alexis de Toqueville, in qualche modo uno dei padri del liberalismo, affermava che “solo con l’agricoltura l’uomo si appropria del suolo e i primi abitatori dell’America del Nord vivevano dei prodotti della caccia”[11]. Ma l’accecante delirio - espressione della cosiddetta falsa coscienza dell’ideologia borghese - di tale tesi non teneva neppure in considerazione che non era affatto vero che le tribù indiane fossero (tutte) nomadi. Dunque, anche volendo prendere per buona questa (davvero singolare) definizione del diritto di proprietà, proprio non sussistevano le condizioni materiali per attribuire ai pellerossa la qualifica di “non proprietari”. Il caso dei Cherokee è a tal proposito esemplare.

4. La deportazione dei Cherokee attraverso la “pista delle lacrime.

Nonostante Toqueville propugnasse, come abbiamo appena visto, che i pellerossa, a suo dire nomadi selvaggi incapaci di incivilirsi, non erano proprietari delle terre su cui vivevano in quanto non le coltivavano, i Cherokee, una tribù della Georgia, quanto a civiltà e conoscenze colturali davano di certo del filo da torcere ai propri “civili” invasori. Tant’è che fin dal 1791 gli stessi coloni bianchi stipularono tutta una serie di trattati che riconoscevano la loro nazione e, addirittura, le loro usanze. Ma quando, nel 1828, furono scoperti dei giacimenti di oro proprio all’interno dei confini delle loro terre i coloni non si fecero alcuno scrupolo di strappare i trattati. E il disperato tentativo dei Cherokee di denunciare la violazione degli accordi appellandosi alla corte suprema si dimostrò purtroppo vano. Nonostante, infatti, questa avesse dichiarato incostituzionale la decisione della Georgia di legiferare su una materia su cui solo il governo federale aveva giurisdizione, i coloni in questione, con l’incoraggiamento del presidente A. Jackson e alla faccia della sentenza della corte, optarono per la deportazione. Essa, ribattezzata eufemisticamente “‘trasferimento degli indiani’ (Indian Removal)”[12], consistette in una marcia forzata oltre il Missisipi di più di 1600 km. Un quarto dei cherokee morì lungo il tragitto. Fu da quel giorno che la strada da loro coattivamente percorsa prese il nome di “pista delle lacrime”[13]. Dopodiché il presidente Van Buren, nel dicembre del 1838, affermerà al Congresso:

“è davvero un piacere poter informare il Congresso del completamento di trasferimento della nazione degli indiani cherokee nelle sue nuove case a ovest del Missisipi. Le misure autorizzate dal Congresso nella sua passata sessione hanno avuto gli effetti più felici.”[14]

5 .Il massacro del Sand Creek.

Il quotidiano americano “Rocky Mountain News”, nel marzo del 1863, pubblicò un editoriale del suo direttore che, attaccando gli indiani, così sentenziava: “Sono una razza dissoluta, vagabonda, brutale ed ingrata e dovrebbe essere cancellata dalla faccia della terra”. Fu proprio nell’anno successivo che si consumò uno dei più raccapriccianti massacri della storia dei pellerossa, quello del Sand Creek (Colorado). Un orrore che, già fonte di ispirazione de “La scotennatrice”, un romanzo di Emilio Sàlgari, divenne (in Italia) noto grazie anche a “Fiume Sand Creek”: la toccante canzone del cantautore Fabrizio De Andrè. L’episodio in questione si svolse quindi nel 1864, quando

“un corpo di spedizione agli ordini del colonnello John M. Chivington assalì una banda di qualche centinaio di indiani, uomini, donne e bambini, e li sterminò, scotennando i guerrieri, sventrando le donne incinte, calpestando a morte i bambini[15] (corsivo mio).

Cosa rimase dopo sarà una testimonianza a raccontarcelo:

“A quasi cinque chi­lometri di distanza dal luogo della strage tro­vammo il corpo di una donna completamente ricoperto da uno strato di neve e da lì in poi ne trovammo diversi, sparpagliati dappertutto, come se fossero stati inesorabilmente scovati e uccisi mentre fuggivano per mettere in salvo la vita […]. Quando raggiungemmo il luogo dove sorgeva l'accampamento indiano, tra i frammenti delle tende bruciate e altri oggetti personali vedemmo i corpi congelati, distesi uno vicino all'altro o ammucchiati. Le donne ed i bambini costituivano più dei due terzi degli indiani morti”[16].

È bene qui ricordare che il presidente liberale progressista T. Roosevelt (insignito del premio Nobel per la pace!) avrebbe in seguito definito questa carneficina, coerentemente con la sua massima “l’unico indiano buono è l’indiano morto”, “un’impresa virtuosa e benefica”[17].

6. Il massacro di Wounded Knee del 1890 e del 1973.

Dopo innumerevoli massacri e deportazioni che fine hanno fatto i pellerossa? In che condizioni vivono oggi? Tra i superstiti possiamo qui accennare ai Sioux. Essi per secoli, assieme agli alleati Arapho e Cheyennes, furono soggetti a massacri, a cui seguivano trattati, poi violati, come abbiamo visto nel caso dei Cherokee, dai loro stessi artefici ogni volta che questi scoprivano nella riserva un nuovo giacimento d’oro, innescando così un circolo vizioso: una protesta indiana, un massacro e di nuovo un trattato tra le due parti. Ciò si verificò ancora nel 1973, quando, nella località di Wounded Knee, dove si era già consumato il noto massacro del 1890, i Sioux denunciarono l’ennesima infrazione “dell’ultimo trattato firmato dai loro rappresentanti e dal governo statunitense”. “Denunciavano la corruzione, l’abbandono, le condizioni di vita infami in cui li si costringeva, le violenze, gli assassini, la disoccupazione”. Il governo inviò le forze dell’ordine che assediarono l’accampamento per due mesi e repressero nel sangue la protesta dei pellerossa nonostante questi chiedessero, come sempre inascoltati, il “cessate il fuoco”[18].

7. I Lakota si dichiarano indipendenti.

I Lakota, la tribù indiana che sotto la guida di leggendari capi indiani quali Cavallo Pazzo e Toro Seduto riuscì a battere i cavalleggeri guidati dal colonnello George A. Custer nella celebre battaglia di Little Big Horn, nel 1876, dopo secoli di soprusi, hanno recentemente dichiarato tramite il celebre attivista Russell Means: “Non siamo più cittadini statunitensi e tutti coloro che vivono nell'area dei cinque Stati del nostro territorio sono liberi di unirsi a noi”. “Abbiamo 33 trattati con gli Stati Uniti che non sono stati rispettati” attacca Phyllis Young, tra gli organizzatori della prima conferenza sugli indigeni, a Ginevra nel 1977.

Ben si comprende la recente decisione dei Lakota, uno dei sette popoli che compongono la nazione dei Sioux, di dichiararsi indipendenti dagli USA, se consideriamo che

“per più di cent’anni, il governo statunitense ha fatto di tutto perché [essi] abbandonassero la loro lingua e cultura. Fu proibita la loro lingua, le loro manifestazioni culturali, le loro cerimonie religiose.”[19].

Di più:

“il 97 per cento di loro vive sotto la soglia di povertà e con un’attesa di vita di appena 44 anni, più bassa perfino di quella dell’Afghanistan; la disoccupazione è all’85 per cento e l’incidenza della tubercolosi 800 volte più alta della media statunitense. Il tasso di suicidi tra i giovani del 150 per cento più alto della media statunitense ed è probabilmente il segnale più evidente (assieme all’alcolismo cronico e diffusissimo) del disfacimento sociale del popolo Lakota”[20].

Inoltre è bene aggiungere che le riserve indiane, luoghi aridi e difficilmente coltivabili, non sono indicate nelle mappe statunitensi come tali ma come siti militari. Divenendo perciò luoghi di sperimentazione bellica e/o di smaltimento dei rifiuti tossici da parte delle industrie limitrofe. È così che si spiega l’elevato inquinamento delle falde acquifere delle riserve; il risultato è che oggi i pellerossa soffrono anche, come se non bastasse, di un elevatissimo tasso di tumori.

Non possiamo che augurarci che la dichiarazione di indipendenza dei Lakota non resti lettera morta o un mero atto simbolico e che essi riescano finalmente ad ottenere il diritto all’autodeterminazione del proprio popolo, innescando magari un circolo virtuoso capace di coinvolgere anche tutte le altre tribù indiane superstiti; cosa che auguriamo anche ad ogni altro popolo oppresso dall’imperialismo israelo-statunitense, a partire da quelli palestinese, irakeno, afgano, haitiano e somalo.

Tutte le forze progressiste e democratiche del mondo, se tali vogliono essere, non possono privare del proprio sostegno questa causa di giustizia e libertà.

Bibliografia:

Jones, M. A., Storia degli Stati Uniti D’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri., Bompiani, 2007.

Mangini, E., “Non siamo più negli USA”. La protesta dei Lakota., su Carta, 20 Dicembre 2007.

Losurdo, D., Il revisionismo storico. Problemi e miti., Laterza, Bari, 1996.

Pavese, C., Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino, 1962.

Poyla, G., Quanti bambini uccideranno gli USA nel 2008?, su www.comedonchisciotte.org, 14/1/2008.

Sagaseta, K. C., I Sioux [popolo Lakota] si sono dichiarati indipendenti dagli Stati Uniti, da rebelion.org, traduzione dallo spagnolo per resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare, 04/01/2008.

Stannard, D., Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.

Stephanson, A., Destino Manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del bene. Feltrinelli Editore, Milano, 2004.

Wolf, N., The end of America: Letter of Warning to a Young Patriot, Chelsea Green Publishing, 2007.

Zinn, H., Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano, 2007.

[1] * Il sottotitolo è una mia libera estrapolazione dal verso: “Scenderemo nel gorgo muti”; tratto da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Cesare Pavese.

[1] Cochran, cit. in A. Stephanson, 2004, p. 121.

[2] Cfr. Stephanson, 2004, p. 137.

[3] Lodge, cit. in Stephanson, 2004, p. 138.

[4] Stephanson, 2004, p. 43.

[5] Cfr. Poyla, 2008.

[6] Cfr. Wolf, 2007.

[7] Così lo definisce Stannard già nel titolo del suo libro (vedi la Bibliografia).

[8] Todorov, 1984 p. 7; cfr. Losurdo, 1996, p. 251.

[9] De Vattel, cit. in Stephanson, 2004, p. 44.

[10] Franklin, cit. in Stephanson, 2004, p. 27.

[11] Toqueville, cit. in Losurdo, 1996, p. 213.

[12] Zinn, 2007, p. 92.

[13] Cfr. Jones, 2007, p. 129.

[14] Buren, cit. In Zinn, 2007, p. 106.

[15] Jones, 2007, p. 254.

[16] Cit. in Stannard, 2001, p. 209.

[17] Cit. in Dyer, 1992, p. 79.

[18] Cfr. Sagaseta, 2008.

[19] Ibidem, 2008.

[20] Mangini, 2007.



Paolo Volponi e la questione ecologica

di Emiliano Alessandroni

Un autore, rimasto forse anche troppo in ombra ai giorni nostri, nel quale è possibile trovare una corretta impostazione del problema ecologico da poter contrapporre alle vedute idealistiche di Hösle, ritengo sia Paolo Volponi. Vale la pena dunque dare un'occhiata ad un paio di suoi romanzi per vedere come in essi viene affrontata la problematica del rapporto uomo-natura e quali indicazioni risolutive vengono elaborate dall'autore.

Un libro che a tal proposito spicca sugli altri è senz'ombra di dubbio Il pianeta irritabile. Tale romanzo può essere considerato una sorta di continuazione di Corporale. Quella paura fobica verso la bomba che troviamo infatti in Corporale è ora divenuta una preconizzata realtà: siamo nell’anno 2293 e l’ultima guerra nucleare ha ridotto l’intero pianeta a un cumulo di macerie e di macabri relitti. Lo scenario è apocalittico e l’incessante oscurità che domina l’intero racconto sembra richiamare su di sé le immagini più strazianti dell’inferno dantesco. Protagonista di questa storia è, anche qui, «un drappello di diversi: tre animali intelligenti e un nano storpio, animati da un ideale di civiltà armoniosa e integra nella quale si ricostituisca il felice rapporto fra l’artificiale scientifico e il naturale così mostruosamente separati dall’uomo».[22]

E qui, Volponi, sembra avere annunciato quale sarà la nuova contraddizione del capitalismo moderno. Ossia, non più solamente la tradizionale idiosincrasia tra capitale e lavoro, tra forze produttive e rapporti di produzione, bensì quella ancor più preoccupante tra capitale e ambiente, tra forze produttive, rapporti di produzione e condizioni di produzione. In questo tetro panorama surrealistico descritto da Volponi nulla mantiene ancora un senso; l’assetto naturale con tutte le sue leggi fisiche è letteralmente sconquassato, gli astri stessi sembrano essere impazziti, e tutto il resto non è altro che un affastellamento inorganico di corpi e materia, quasi che l’imperversante furia della natura si fosse abbattuta su quella logica d’individualismo fratricida, di cui il modello capitalistico fa il suo asse portante. L’autore ha quindi messo in luce la nascita di una seconda contraddizione giustapposta a quella tra capitale e lavoro. Una seconda contraddizione che prende forma «non soltanto per il crescente raggio di azione della scienza, o dell’intelletto generale, ma anche e soprattutto per la conseguente crescita dell’impiego produttivo di risorse energetiche e materie prime estratte dalla (o sottratte alla) natura-ambiente e per la crisi eco-sistemica che ne deriva».[23] Volponi sembra preconizzare che quella concezione di sottomissione universale alla logica del profitto, suggellerà non solo l’autodistruzione umana, ma persino la cessazione dell’esistenza in sé, l’estinzione di ogni forma di vita. L’uomo ricerca il suo modello, e quel modello s’impadronisce dell’uomo, della natura, e di tutto quanto tenti vanamente di discostarvisi. La degradazione della realtà per Volponi è insita in quell’intelaiatura sociale che la caratterizza, che è il modello capitalistico. E se questa degradazione coinvolgeva in principio i lavoratori ora si è estesa finanche a tutto l’ambiente naturale. L’ineluttabilità di questo degrado si trova nel fatto che «né la forza lavoro, né la natura, nelle loro dimensioni di spazio e di tempo, sono prodotte dal sistema capitalistico, e ciononostante il capitale tratta le condizioni di produzione come se fossero merci, o beni capitali [...]Il potere combinato dei rapporti capitalistici e delle forze capitalistiche di produzione si auto-distruggono, ipotecando o distruggendo le loro stesse condizioni».[24] Non si tratta di pura fantasia sovversiva, ma di drammatici fatti reali che si dispiegano odiernamente sotto i nostri occhi:

Sono ben noti gli esempi di accumulazione capitalistica che danneggia o distrugge le condizioni del capitale, minacciando così i profitti e la capacità del capitale di produrre e accumulare altro capitale. Le piogge acide distruggono le foreste, i laghi, gli edifici, e anche i profitti. La salinizzazione delle acque di superficie, i rifiuti tossici, l’erosione del suolo, etc., danneggiano sia la natura sia gli utili. Il “circolo vizioso” dei pesticidi distrugge insieme i profitti e la natura. Il capitale urbano che opera nella spirale del “rinnovamento delle città” danneggia le sue stesse condizioni, e quindi i profitti, per via dei costi di congestione, dell’aumento degli affitti, ecc.[25]

Il capitale del resto mangia, come un mostro affamato fagocita tutto quanto, e trasforma irreversibilmente ogni cosa in denaro. Ma ciò che egli prende non è un qualcosa d’infinito o delle entità astratte, bensì si nutre di risorse che sono presenti in questo mondo, il quale, nostro malgrado è ben circoscritto e contornato. Ma al Mostro non gliene importa, a Lui interessa il profitto, tutto il resto non lo riguarda. E non gli interessa sapere nemmeno che se le risorse sono finite, anche lui è finito, e che se continuerà a divorarle così voracemente senza curarsene, quel suo destino di morte che lo attende, tenderà inesorabilmente ad avvicinarsi. Ma al Mostro non interessa, il Mostro non fa calcoli, non ha razionalità, lui vede solo il profitto, è un animale molto istintivo, vuole il profitto e si cura di averlo solo nel presente, non gli interessa né del passato e tanto meno del futuro. Questo è il capitalismo. Un mostro istintivo e brutale che si è impossessato della realtà e la cui logica non sembra affatto contraddire l’avviamento verso quello scenario di distruzione apocalittico preconizzato da Volponi nel Pianeta irritabile, per un non poi così eccessivamente lontano 2293. Il mondo del Pianeta irritabile sembra rispecchiare appieno quella lapidaria sentenza del famoso capo indiano Seattle che recitava:

Quando l’ultimo albero

sarà stato abbattuto

l’ultimo fiume avvelenato

l’ultimo pesce pescato,

vi accorgerete che non si può

mangiare il denaro.

In effetti nel Pianeta irritabile l’unica cosa rimasta sembra essere il denaro, ma a mancare è questa volta un mondo dove poterlo spendere. E tuttavia, di fronte ad un tale scenario apocalittico, la rassegnazione non prende mai il sopravvento, bensì prevale sempre nei personaggi la volontà di lottare, con tutte le proprie forze, contro ogni ostacolo; perpetuamente intrisi di una prometeica volontà di riscossa, che gli permetterà alla fine di sconfiggere quell’ultima scalpitante parte del Mostro rimasta ancora in vita: il governatore Moneta con tutti i suoi scagnozzi. Il Pianeta non è una semplice e rassegnata denuncia all’egoismo autodistruttore che costituisce il tratto caratterizzante della civiltà post-moderna, quanto una vera e propria «metafora narrativa della possibilità di passare dalla catastrofe alla utopia di un nuovo mondo».[26]

Ed è significativo notare come non solo l’analisi del sistema ma persino la diagnosi avveniristica e la sua conclusione presente nel Pianeta, finisca, in un certo qual modo, per collimare con quella dei sedicenti “ecomarxisti”:

Puo darsi che il processo tradizionale della “costruzione socialista” stia per scomparire e che al suo posto stia per apparire un nuovo processo di “ricostruzione socialista”, o di ricostruzione dei rapporti tra gli esseri umani e le condizioni di produzione, ivi incluso l’ambiente sociale. È quanto meno plausibile pensare che nel “primo mondo” la ricostruzione del socialismo sia considerata in primo luogo auspicabile e in secondo luogo necessaria; egualmente auspicabile e necessaria nel “secondo mondo”; mentre nel “terzo mondo”, in primo luogo necessaria, e in secondo luogo auspicabile. È del tutto plausibile che il surriscaldamento dell’atmosfera, le piogge acide e l’inquinamento del mare rendano assolutamente indispensabili forme sociali più avanzate di ricostruzione della vita sociale e materiale. [27]

La fine del pianeta, in effetti, sembra mostrare la riedificazione, di lì a poco, di una nuova società libera dall’egoistico interesse di classe, com’era del resto allo stato naturale: «il nano con lentezza rituale spezza il foglio di riso fino a quel momento custodito come patrimonio privato e lo offre come cibo ai suoi compagni. È il rito che inaugura una nuova società senza interessi individuali o poteri. Il rinvio al rito eucaristico è palese (<>). La proprietà privata, origine delle guerre e della catastrofe ecologica, è estinta, come pure la formalizzazione estetica a vantaggio del "bene comune”».[28]

Al di sopra della più o meno transitoria fase socialista preconizzata da O’Connor, la scena finale del Pianeta Irritabile, seppur dopo una disastrosa catastrofe planetaria, simboleggia il preludio per la nascita di una società a tutti gli effetti comunistica, che sancisce il sorgere di una nuova era, o, per Marx, l’inizio vero e proprio della Storia. L’intero impianto ideologico del romanzo» sostengono alcuni critici, «sembra trarre origine da una vera e propria filiazione leopardiana».[29]

Tra le argomentazioni su cui fa leva questa teoria vi è la tematica presente nel Pianeta «che la ragione umana, non appena superi il grado di facoltà naturale e animale, sia all’origine dei più famosi errori "artifiziali" e "barbarizzanti"».[30]

Come che sia, occorre in primissimo luogo precisare che tale concezione si trova presente nel primo Leopardi, quello del “pessimismo storico”, poiché con la prima elaborazione del “pessimismo cosmico” egli abbandonerà l’idea sacrale della natura. Se vogliamo fare un parallelismo con qualche autore, riguardo la suddetta teoria, questo parallelismo sembrerebbe più lecito farlo con Rousseau. In Rousseau troviamo in effetti espresse in maniera manifesta, e con assoluta precisione, le concrete configurazioni di bene e di male, rispettivamente individuate nella natura e nella società. Per Rousseau, «la caduta, il peccato, la malattia sociale non sono imputabili al singolo individuo, buono, incorrotto, inconsapevole, beato nel suo paradiso terrestre; ma all’umanità presa come un tutto, alle istituzioni civili, al processo irrazionale e casuale che ha portato alla formazione della cultura e della società, ed alla deformazione della natura umana».[31]

Questo mito del “buon selvaggio” era già presente in Bartolomè de Las Casas, il quale nella sua fervente denuncia contro le crudeltà perpetrate dal colonialismo europeo durante la conquista dell’America, abbraccia una visione quasi idealizzata degli indios come esseri dotati della naturale purezza, simboleggiamento della natura prodotta direttamente da Dio e non contaminata dalle embolie della civiltà:

Tutte queste infinite genti creò Iddio del tutto le più semplici…, le più umili, più patienti, più pacifiche et quiete, senza contese né tumulti, non rissose, non querule, senza rumori, senza odio, senza desiderii di vendetta, di quanti stano al mondo. Sono parimente le genti più delicate, deboli e tenere di complessione…Sono anco genti poverissime, e che poco possiedono o vogliono possedere di beni temporali; e perciò non superbe, non ambitiose, non avare.[32]

In realtà questi Indios non erano affatto il riflesso della purezza, ma un popolo come tutti gli altri seppur non sviluppato e vicini allo stato naturale. La loro organizzazione politica infatti «era un sistema di potere dispotico» che – come ci ricorda Max Weber - era «basato per eccellenza sul lavoro coatto».[33] Non per questo, vennero massacrati e trucidati –con tanto di torture- dal colonialismo spagnolo e portoghese in una delle più feroci carneficine umane che la storia ricordi. È un fatto comunque che lo stato naturale non sia per nulla garante di giustizia. Nel Pianeta irritabile vige una gerarchia ben precisa persino tra i quattro animali, e la scimmia che rappresenta il vero prototipo dell’istintività naturale si erge a capo del gruppo con un autoritarismo tipico delle antiche tirannie.

Dopo un lunghissimo cammino fecero una sosta, ancora sulla cenere. Si sfamarono ancora con il solito sistema, ordinatamente uno dopo l’altro, Epistola, l’oca, l’elefante e il nano. Questi capì che la gerarchia era perfettamente funzionale: il capo, il ricognitore (ce l’avevano in gran conto anche i circhi, colui che andava a scegliere le piazze), il trasportatore e poi colui che era al rimorchio, utile ogni tanto ma non essenziale per il gruppo.[34]

La difesa del primitivismo, non la ritroviamo del resto nemmeno nel primo Leopardi secondo cui se «il barbaro è già guasto, il primitivo ancora non è maturo».[35] La sostanza rimane purtuttavia la stessa, il dominio assoluto di quel sentimento in voga nella civiltà moderna che è l’egoismo, ossia l’esasperato individualismo:

Così, nel modo che ho detto, ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima età quando la società, non esistendo, ciascuno era amico di sé solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perché distruttivi della società, e contrari direttamente all’essenza, ragione o scopo suo. Quindi si veda quanto sia vero che lo stato presente del mondo è propriamente barbaro o vicino alla barbarie quanto mai fosse.[36]

Da qui prende corpo in Leopardi la critica nei confronti della ragione come produttrice di “barbarie”. In realtà tuttavia egli non criticherà mai la ragione per la sua endemia ontologica; «la ragione che egli condanna e, in certo modo, combatte, …è una ragione storica, la ragione acquisita durante i secoli dell’incivilimento umano»[37]. Lungo questa scia si colloca anche un filosofo come Herbert Marcuse che individua nella società occidentale un asservimento a ciò che è da lui soprannominato “principio di prestazione”, ossia la «direttiva di impiegare tutte le energie psico-fisiche dell’individuo per scopi produttivi e lavorativi. Il principio di prestazione, riducendo il singolo ad un’entità-per-produrre, ha represso le richieste umane di felicità e di piacere, comportando nello stesso tempo una diserotizzazione del corpo umano e la cosiddetta "tirannide genitale", ossia la riduzione della sessualità a puro fatto genitale e procreativo».[38] «Sotto il dominio del principio di prestazione anima e corpo vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato, e l’organismo umano deve rinunciare ad essere quel soggetto-oggetto libidico che esso originariamente è e desidera di essere».[39] Ma questa rinnovata dicotomia tra natura e ragione, tra essenza biologica e civiltà, è anche in Marcuse come in Leopardi di matrice meramente storica. Ad essere sul banco degli imputati è l’industrialismo capitalistico, produttore indiscriminato di alienazione. Come che sia, lo stesso Marcuse, distaccandosi dal genericismo di Freud specifica che «il conflitto inconciliabile non si svolge tra lavoro (principio della realtà) ed Eros (principio del piacere), ma tra lavoro alienato (principio di prestazione) ed Eros».[40]

Ci troviamo nello stesso angolo visivo del Pianeta Irritabile, e per comprenderlo appieno occorre operare una disamina meticolosa senza lasciarsi dirottare dalle interpretazioni infondate. E qui giocano un’importanza determinante le pagine conclusive del romanzo. L’episodio finale che sigilla la chiusura del racconto non si tratta affatto della «regressione ad una forma di esistenza naturale e animale, nella quale la poesia stessa non ha più alcun privilegio e può ridursi addirittura al suo valore commestibile»[41], ma ci troviamo bensì con i tre reduci del viaggio in uno stato coscienzioso che va ben al di là e dello stato naturale e di quello artificiale ossia della società industriale-capitalistica. La prospettiva è insomma «quella dischiusa nel Novecento dal giovane Lukacs e dai Francofortesi: il riconoscimento che la società del Capitale aliena l’uomo dalla natura e l’auspicio che in una società senza classi si avvii la riconciliazione fra capacità lavorative della civiltà e forze della natura».[42] Ed è qui e solo qui che il pensiero di Volponi si sposa perfettamente con quello di Leopardi, proprio con l’emergere della sua venatura marxista - con lo scandalo di quanti scorgono nel poeta ottocentesco solamente le componenti nichilistiche (Severino) senza vedere quelle materialistiche -. La reale passione di Leopardi si dirige infatti, verso «quella "civiltà media" in cui natura e ragione si equilibrano, in cui…si ha la <> non solo "dell’incivilimento", ma anche "della natura"».[43] E sta qui altresì la sua differenza con Rousseau e l’inevitabile superamento: vi è in confronto al filosofo illuminista, «una molto diversa valutazione della civiltà. Essa non è necessariamente per Leopardi, una corruzione della natura; essa…è uno sviluppo e un punto di equilibrio che diventa corruzione solo quando si fa mortificazione della componente natura». Dunque non allora il ripristino della naturalità contro la ragione e la filosofia, ma bensì un uso della ragione e della filosofia che rinverdiscano in una più giusta società quell’essenza naturale dell’uomo soffocata dalla logica mercificante del modello capitalistico. («Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura»[44]).

Per società perfetta non intendo altro che una forma di società in cui gli individui che la compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente, e non immancabilmente; una società i cui individui non cerchino sempre e inevitabilmente di farsi male gli uni agli altri. Questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili, la cui società è naturale e nel grado voluto dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per accidente, né il fine o lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. E talora gli uni fanno male ad alcun degli altri, o tutti ad un solo o a pochi, per lo solo oggetto del bene comune o del ben dei più, come quando le api puniscono le pigre. Non fanno già esse per il ben d’un solo. Né chi’l fa lo fa pel solo ben suo, anzi pel bene ancora di chi è punito. Ed anche questo far male ad alcuno è un cospirare al ben comune. [45]

Ed è su questa linea che prontamente s’inserisce il romanzo di Volponi. La scena conclusiva del Pianeta irritabile, sembra preludere alla società auspicata sopra da Leopardi, che in fondo è, possiamo dirlo senza esitazione, la descrizione grezza e approssimativa di una vera e propria società comunista, ove è praticamente estinta ogni forma di conflitto di classe. Ma non si tratta di una regressione allo stato naturale, non vi si giunge mediante il soffocamento degli istinti sulla ragione, ma bensì mediante un’evoluzione della ragione tale da riconoscere la necessità di una conciliazione tra questa e l’essenza naturale; lungi dall’asfissia artificiosa e meccanizzata degli impulsi biologici. Una razionalizzazione della natura umana. Una vera e propria commutazione dell’amor proprio naturale in amor proprio razionale. La scena conclusiva del Pianeta, è del resto preceduta da una mitragliata di insulti che il nano dai mille nomi infierisce al governatore Moneta, i quali rappresentano una critica circostanziata e coscienziosa del modello capitalistico lontana anni luce da una retrocessione allo stato primitivo. Nella sua natura lapidaria e particolarmente sferzante, la critica è intelligente e per nulla scontata, e arriva finanche a sfiorare i punti cruciali delle problematiche sorte con la prima Rivoluzione Industriale:

Tu non sei un uomo né vero né finto; sei solo l’uomo alla fine dell’uomo…L’uomo che ha snaturato e lasciato l’uomo, sei tu. Quindi sei uno stronzo, solo uno stronzo! Lo stronzo più stupido e scemo mai cagato da sgherri e gendarmi: cagato in fretta in fondo al corridoio di una caserma coloniale…fuori del lurido monte di merda del cesso perché il gendarme o sgherro che ti cagò stava male, con la testa affettata dal coltello di uno schiavo, e non riuscì a raggiungere la tavoletta, unico segno di civiltà che gli era stato elargito e concesso e che di solito baciava prima e dopo dell’uso! Sei un’enorme stronzo perché quel gendarme o sgherro aveva rubato la cioccolata in fureria e si era rimpinzato di fave, plum-cake, noccioline, pop-corn e bibite gassate prima dell’attacco di tutto il suo battaglione dei trecento contro il povero, solo, schiavo ribelle. O stronzo figlio dell’ordine e del progresso messi nel culo di un gendarme dal triste e devoto cazzo di un magistrato! Oh! Stronzo! Governatore di tutti gli stronzi! Ripiegati sul tuo corpo e sulla tua anima di merda e abbandonati alla merda. Merda eri e sei e merda sarai! Ma non la buona merda, onesto sterco di un corpo: soddisfazione e rifiuto di una esistenza appagata, giorno per giorno, anche defecando e concimando: elargendo oltre che assumendo e mangiando. Tu non sei certo la merda di un ciclo naturale; ma il mucchio, lo stronzo tesaurizzato di una circolazione forzata. Come nell’innaturale tu confondi l’oro con la merda e non l’oro metallo utile per i denti e non la merda utile come concime; ma l’oro moneta con la merda moneta! Segni entrambi dell’artificiale; e della imposizione, anche viscerale, su cui l’artificiale si poggia. L’artificiale come artificiosa ragione del potere e non come ricerca e scienza. Perché l’artificiale scientifico ritorna naturale; vicino anche alla buona merda! Mentre il tuo artificiale resta sempre e solo artificiale e per reggere come tale deve continuare ad aumentare i propri artifici e a staccarsi come potere naturale. [46]

La critica serrata rappresenta la consapevolezza raggiunta del baratro nel quale è stato sprofondato l’uomo come essere naturale dalla logica del profitto. Ad essere messi sotto accusa non sono né l’uso della ragione né l’artificiale in sé per sé («l’artificiale scientifico ritorna naturale; vicino anche alla buona merda») ma bensì tutta la concezione deificante del denaro, la bramosia di potere, e la mentalità consumista che ha fatto dell’artificiale la propria immagine e di conseguenza la morte della natura.

La scena finale dei tre superstiti rappresenta la consapevolezza raggiunta del degrado al quale ha portato l’imperversante concorrenza egoistica della civiltà moderna capitalistica. Da ciò, l’istintivo rifiuto verso quella produttrice indiscriminata di distruzione, e la comprensione che l’uguaglianza sociale e comunitaria fosse l’unica strada per una riconciliazione tra lo sviluppo dell’animo fin qui conseguito e l’essenza naturale. Un perfetto binomio tra natura e ragione ben lungi da un ritorno allo stato primitivo. Sta qui molto probabilmente il reale tratto accomunante tra Volponi e Leopardi.


Bibliografia:

Vittorio Hösle: "Filosofia della crisi ecologica", Einaudi 1992

James O'Connor: "L'ecomarxismo. Introduzione a una teoria", Datanews 1990

Romano Luperini: "Scrittura e interpretazione", Dal Naturalismo al postmoderno Edizione Rossa, 1998

Paolo Casini: "Introduzione a Rousseau", Laterza 1986

Bartolomé de Las Casas: "Brevissima relazione dell distruzione delle Indie", Firenze 1991

A.A.V.V.: "Storia moderna", Donzelli 1998

Paolo Volponi: "Il pianeta irritabile" , Einaudi 1978

Giacomo Leopardi: "Tutto è nulla. Antologia dello Zibaldone" Garzanti 1997

Cesare Luporini: "Leopardi progressivo", Editori Riuniti, 2006.

Nicola Abbagnano: "Filosofi e filosofie nella storia", Paravia 1986

Giuseppe Bedeschi: "Introduzione alla Scuola di Francoforte", Laterza 1985

Herbert Marcuse: "Eros e civiltà", Einaudi 1968

Antonio Gramsci: "Quaderni del carcere" Einaudi 2001



[22] Mario Petroncini: "Sogni di eroi solitari" da l'Unità del 24/08/1994

[23] Giuseppe Prestipino: "Per un approccio marxista alla questione ecologica" da "l'ernesto" 2003

[24] O'Connor, 1990, pp. 27-28

[25] O'Connor, 1990, p. 29

[26] Alfredo Luzi: "Volponi: tra natura e storia", da "Paolo Volponi: il coraggio dell'utopia", giornata di studi, Istituto Gramsci Marche

[27] O'Connor, 1990, p. 37

[28] Luperini, 1998, p. 805

[29] Luperini, 1998, p. 792

[30] Ivi.

[31] Casini, 1986, p. 15

[32] Las Casas, 1991, p. 12

[33] in A.A.V.V., 1998, p. 32

[34] Volponi, 1978, p. 30

[35] Leopardi, 1997, 118

[36] Leopardi, 1997, 674

[37] Luporini, 2006, p. 29

[38] Abbagnano, 1986, p. 573

[39] Bedeschi, 1985, p. 152

[40] Marcuse, 1968, p. 90

[41] Luperini, 1998, p. 803

[42] Emanuele Zinato: "La chiara fantasia: linguaggio e fantasia nelle prose "minori" di Paolo Volponi", da "Paolo Volponi: il coraggio dell'utopia" giornata di studi; Istituto Gramsci Marche

[43] Luporini, 2006, pp. 33-34

[44] Leopardi, 1997, p. 119

[45] Leopardi, 1997, pp. 199-200

[46] Volponi, 1978, pp. 169-170


Commentaria in Leonardum Pegorarum

Gentame in un amen bigia desiderate

Edidit et explanavit

Nicola Serafini

Gentame in un amen bigia desiderate;

giustizia profligando,

verità occultando,

il popolo motor dell’istoria rigettate.

Vostre peste di pese e retoriche gesta

bramiam la veritate.

Che passin non crediate

da voi l’idee desiate di desidia mesta!

[L.P.]


Metro: Componimento in due quartine. Ogni strofe si compone di due versi di quattordici sillabe (tettaracaidecasillabi) in prima ed ultima sede, separati da due settenari in seconda e terza sede. Schema rimico: ABBA/CAAC.

1 Amen: dal greco amén – preso a sua volta dall’ebraico ’amen, che significa “davvero, in verità” –, nell’espressione «in un a.», significa “in un attimo”, letteralmente “nel lasso di tempo in cui si pronuncia «amen»”. Come spesso accade in questi casi, l’ausilio dantesco si rivela oltremodo provvidenziale nella sua chiarezza: «Un amen non sarìa potuto dirsi / tosto così com’e’ furo spariti» (Inf. XVI 88-9) [scil. “non si sarebbe potuto dire «amen» con tanta rapidità quanta fu quella con cui essi sparirono”]. Bigia: “bigio” è aggettivo denotante la persona che, in politica, mantiene un atteggiamento indeciso o indifferente, di pura apatia. Equivalente ad “ignavo”. Nella fattispecie va riferito ovviamente a «gentame».

2 Profligando: dal lat. profligare – composto da pro e fligere –, sta per “abbattere, annientare, sconfiggere”, in tutte le accezioni possibili.

3 Scil. “insabbiando, nascondendo e contraffacendo la verità”.

4 Qui il popolo è detto «motor dell’istoria», ma tale affermazione non è da intendersi in senso populista; piuttosto, l’autore tenta qui di rimarcare come la storia stessa abbia le sue fondamenta nel popolo medesimo.

5 Peste: da pesta – orma, impronta lasciata sul terreno –, usato quasi esclusivamente al plurale. Pese: da peso, aggettivo propriamente toscano, che sta per “pesante”; altresì, questo aggettivo può significare anche, figurativamente, ciò che è noioso, opprimente, insopportabile. Retoriche: le gesta sono così dette in quanto sono miranti ad ottenere particolare plauso dello spettatore e a suscitare fama, e per far ciò anche nel compierle si tiene conto di particolari accorgimenti utilitaristici. Lo stesso procedimento della retorica in campo linguistico. Nell’assieme, il verso potrebbe intendersi in vario modo: “[vogliamo sapere] cosa si cela dietro alle vostre gravi (pese) azioni ambigue”, ovvero “vogliamo sapere quali sono gli antecedenti, la storia, delle vostre gesta ipocrite (retoriche)”.

6 Bramiam: derivante dal gotico antico, “bramare” sta per “anelare, desiderare ardentemente”. Veritate: verità.

7 Inversione del costrutto, per cui è da leggersi: “Non crediate che passino”.

8 Desiate: voce poetica per “desiderate”, “vagheggiate”; morfologicamente, è participio passato di “desiare”, qui aggettivante (al plurale femminile) riferito ad «idee». Desidia: voce letteraria che sta per “pigrizia”, “negligenza”, “accidia”, identica al latino desidia, derivato di desidere, “restare inoperoso”. Mesta: dal latino maestus – participio passato di maerere, “essere afflitto” –, mesto ha una sfera semantica ben più ampia di “triste”, cui viene spesso affiancato. Il primo, infatti, denota un’inclinazione a pensieri ed emozioni di dolore come di rassegnazione, anche con senso affine a “malinconico” o ad “accorato”. Qui è da riferirsi a «desidia». Nel complesso, gli ultimi due versi possono intendersi come: “non crediate che passino le idee di mesta apatia [scil. la «bigia» apatia del primo verso] che voi desiderate che passassero”. La composizione “ad anello” si attua qui attraverso il richiamo finale all’apatia stigmatizzata nel primo verso.

A livello del significante, numerose sono le considerazioni che si possono fare in merito a questo pur breve componimento. Innanzitutto va detto che nella prima strofe la struttura sintattica coincide sempre con la struttura metrica, mentre nella seconda essa si prolunga in ben due casi anche al verso successivo, e ciò anche senza alcun enjambement. Inoltre, non è mai presente alcuna cesura né dieresi in nessun verso, per cui questi non hanno al loro interno alcuna pausa, mentre il verso stesso assume una certa importanza sia come struttura ritmica che semantica.

Oltre alle rime a fine verso, ne notiamo anche di interne (desiate, al v.8), assieme a cospicue assonanze ( -ame-/-ate-; -eri-/-edi-/-esi-/) e consonanze (e.g. il gruppo -st- in giustizia, peste, gesta, mesta).

A livello fonologico anche le numerosissime allitterazioni giocano un ruolo notevole nella struttura ritmica. In ben cinque casi sono interne al verso – -ame (v.1); -en- (v.1); pe- e re- (v.5); desi- (v.8) –, mentre in altri casi coinvolgono tutto il microtesto: il fonema ge- occorre in tre sedi (vv. 1-4-5); -ri- in quattro sedi distribuite sapientemente in quattro versi succedenti (vv. 3-4-5-6); -ta- in cinque coincidenze (vv.1-4-5-6-8); -te- addirittura ha sei occorrimenti (vv. 1-4-5-6-7-8), come anche il fonema -de- (vv.1-4-8); -es- consta di sette apparizioni (vv. 1-5-8), delle quali tre sono concentrate nel quinto verso, ed altre tre nell’ultimo.

La ripetizione di singoli fonemi ha pari importanza. La dentale occlusiva /t/ occorre in ben diciannove sedi, creando un andamento straordinariamente sincopato e rallentandolo notevolmente; la dentale sonora /d/ annovera tredici presenze, di cui sei tutte nel solo ultimo verso. Il fonema /g/ è presente in sei casi, sia nella variante sorda (-ga- al v.2) che in quella sonora (-ge- e -gi-). Le consonanti liquide sono quasi latenti, creando un dettato volutamente aspro e “spigoloso”, per nulla addolcito dalla presenza di qualche /l/ seguita da vocale, che tende a passare inosservata fra tutte le nasali e le gutturali del testo.

De hoc sati




Eco e Narciso

di Nicola Serafini

Fra le Oreadi, non vi era ninfa che fosse più bella di Eco. Queste ninfe vivevano nei lussurianti boschi della Beozia, erano gli spiriti tutelari di quelle selve, ed erano note per la loro allegrezza, e per la sinuosità dei loro corpi durante le danze.

Ebbene, per quanto fossero tutte incantevoli, nessuna poteva rassomigliarsi ad Eco, una ninfa dalle chiome fluenti e ondulate tinte di chiaro castano, mentre i viridi occhi erano di colore verdazzurro.

Oltre ad essere bellissima, essa era una indefessa parlatrice: la sua voce cristallina non si placava mai, poi che ella parlava, parlava da mane a sera, e la logorrea veniva sospesa solo da qualche argentina risata, per poi riprendere a fluire in un torrente di gaie parole.

Un giorno accadde che Zeus scendesse sui monti beoti per svago, stanco delle cure quotidiane e degli intrighi olimpici, per dilettarsi un poco e riposarsi fra le divine Oreadi, cosa che di tanto in tanto egli prediligeva e non tardava a concedersi.

Ma la gelosissima ed arcigna sua ultima sposa, Era “dalle bianche braccia”, lo seguì sospettando licenziosi tradimenti o chissà quale salace avventura del marito, e sorpresolo in mezzo a tutte quelle splendide ninfe, montò su tutte le furie e proruppe in un’ira micidiale. Si creò una tremenda confusione, con le urla e i gemiti delle ninfe spaventate che fuggivano da e verso ogni direzione, veloci e leggere.

L’unica che non scappò fu la liliale Eco, la quale si mise a parlare con Era, per dar modo a Zeus e alle altre ninfe di fuggire e di mettersi al riparo dalla ferale ira della regina degli dèi.

Ma quando quest’ultima, però, si rese conto che quella garrulità traboccante era solo volta ad intrattenerla e addirittura distrarla, si adirò ancora di più.

«Taci, sciagurata! – gridò Era – Taci! Hai ciarlato a bastanza! Anzi, hai trasceso il limite! Quindi, poi che hai tentato di ingannarmi, ti punirò proprio privandoti dell’arma della tua meschinità: d’ora innanzi tu non potrai mai più iniziare un discorso, una frase, un canto. Non potrai mai più pronunciare una sola parola di tua iniziativa! E non potrai neppure rispondere a chi ti avrà rivolto una domanda; bensì, mia cara, tu riuscirai ad avere sempre e solo l’ultima parola su tutto, ma avrai solo quella!».

La sublime Oreade, affranta e vaga, errò per giorni e notti; attraversò prati silvani e ruscelli gentili, valli e colline, sempre meditando sulla sua disgrazia con una profondissima accoratezza.

In questo suo vagare erratico, ella si imbatté in un giovine solitario, bellissimo di aspetto: i riccioli biondi e gli occhi scuri, il corpo dimestico con gli esercizi, e un chitone magnifico, facevano sì che quel ragazzo seduto con aria malinconica apparisse a lei come un’epifania dolcissima.

Questo giovine, figlio della ninfa Liriope e del fiume Cefiso, si chiamava Narciso ed era perseguitato da un vaticinio enigmatico e obliquo: il grande indovino Tiresia, infatti, gli predisse ch’egli sarebbe morto non appena avesse veduto la sua propria immagine riflessa.

Ma egli era così bello… e quella espressione di mestizia malinconiosa fece sì che Eco si innamorasse perdutamente di lui. Ma non potendo rivolgergli la parola si limitò a vagheggiarlo da lontano, e per giorni e giorni non fece che seguirlo e guardarlo con profonda emozione, non potendo fare altro.

Ma Narciso, purtroppo, non concepiva l’amore, non lo conosceva, non lo imaginava neppure. Egli amava la solitudine, e così si mostrò dapprima cinico nei confronti di quella ninfa che lo seguiva; e a grado a grado il suo caustico distacco si fece sempre più acre, sì che accelerò il passo, tentò di nascondersi, corse a perdifiato, ma Eco alfine lo giungeva sempre, spinta dal sentimento.

Narciso, al colmo della disperazione, le gridò:

«Ma insomma, cosa vuoi da me?»

«…da me?»

«Perché sèguiti a seguirmi?»

«…seguirmi?»

«Non sai parlare?»

«…parlare?».

Infine Narciso, spazientito dalla conversazione improbabile, scappò via e corse con tutte le forze di cui disponeva, e con un empito ardente riuscì a far perdere le tracce di sé; Eco tentò di inseguirlo, ma questa volta non poté nulla, e lo perse di vista.

L’Oreade scoppiò a piangere, disperatissima; pianse per giorni interi, sempre vagando in cerca di Narciso, gemendo e mugghiando fra le lacrime immense che le bagnavano il viso, e in preda all’afflizione setacciò le selve e i monti, ma non riuscì a trovarlo.

Fu così che, deposta ormai ogni speranza, si sedette su di una roccia, con il viso fra le mani, che a traverso le dita lasciavano stillare le sue piene lacrime.

Rimase lì per giorni e giorni e giorni, senza nutrirsi di nulla fuor del suo stesso dolore. Prese pian piano a dimagrire, inesorabilmente; la pelle si attaccò alle ossa e a grado a grado il suo splendido corpo si seccò sempre più, si indurì, diminuì di volume, fin che non si fuse con la roccia stessa su cui stava.

Di lei non rimane che la voce, quella voce che ancora oggi risponde solo se chiamata, e ripete l’ultima parola, ma che da sola non può dir nulla, in seguito alla formidabile punizione di Era.

Questo accadde alla bella Eco, colpevole d’amore.

Il bel Narciso, invece, trafelato e anelante dopo l’estrema corsa, giunse presso una fonte amena da cui sorgeva un’acqua purissima: la fonte Ramnusia.

Si gettò subito prono sulla riva e prese a bere copiose sorsate di quella freschissima acqua; saziata che fu la sua gran sete, si dilettò per alcuni istanti a tirare dei ciottoli nelle acque terse e ad ammirare gaiamente i cerchi ondivaghi che si formavano a pelo d’acqua ogni volta in cui essa era disturbata.


Ma ben presto di stancò anche di quel innocente passatempo e si aggiaccò sull’erba che cingeva l’orlo della fonte. Se ne stava lì accùbito, mirando i riflessi di quello specchio d’acqua, di nuovo preda di quella malinconia che non gli riusciva di eludere.

Quando però le acque tornarono lentamente a placarsi, egli iniziò a travedere un viso che lo guardava dal fondo dello stagno. Così, stupito, rimase a guardare fisamente quel volto imberbe e dai riccioli biondi, pensando che fosse la dea di quella fonte.

Egli non poteva minimamente sospettare che si trattava della sua stessa imagine riflessa dall’acqua.

“Che bella dea! – pensò fra sé e sé – Che bella dea… costei ha un viso così gentile e perfetto, come mai mi accadde di vederne… Ma chi sarà? Di certo deve essere il nume tutelare di questa splendida fonte. Non può che essere una qualche dea, tanto è divinamente bella!”.

In breve si accorse di amare perdutamente quella muta visione che a sua volta non faceva che guardarlo con una deliziosa fissità espressiva, e che egli nel giro di pochi istanti sentì tanto incredibilmente vicina a sé da fargliela desiderare più di ogni altra cosa.

«Su, vieni da me! – gridò egli tendendo le mani in avanti – Su, fatti abbracciare! Vieni da me!».

E l’imagine, ovviamente, tese a sua volta le mani, come per rispondere al suo invito o per invitarlo a sua volta , sorridendo con trasporto.

Narciso sorrise ancora, e l’imagine fece altrettanto. Per ore, egli rimase in ammirazione di quella visione ineffabile, per lunghe ore silenziose.

«Vieni da me! – supplicò nuovamente – Vieni!».

Ma l’effigie acquea continuava a ripetere i suoi gesti senza emettere alcun suono; egli vedeva le sue labbra muoversi ma senza udire alcunché e pensò pertanto che la voce di lei non poteva giungere fino a lui dal fondo dell’acqua.

Così per l’ennesima volta vide l’imagine muovere le labbra e tendere in avanti le braccia, e ritenne che ella lo stesse invitando a raggiungerla. E Narciso repente si tuffò nella fonte dalle profonde acque, senza rifletterci neppure un istante.

Ma l’acqua algida lo ghermì, lo avvolse, lo trascinò nel fondo, ed egli si dibatté senza posa, si sentì pian piano soffocare; tentò di annaspare, ma l’acqua gli entrava nella bocca e nel naso e lo soffocava; tentò di gridare, ma nessuno lo poteva udire. Si agitò, e si dibatté ancora, convulsamente, sprofondava e poi risaliva, avvolto dalle spire potenti delle correnti; continuò a tentare di divincolarsi ma le forze ormai lo stavano abbandonando e la morte lo ghermì.

Questo accadde al bel Narciso, colpevole d’amore.

Nessuno compianse Narciso, nessuno si condolse della sua scomparsa, poi che egli aveva sempre vissuto solo per sé, disprezzando l’affetto degli altri.

Ma il dio Eros, longanime, ebbe pietà della sua tragica fine e in sua memoria, attorno alle rive della fonte Ramnusia, fece nascere un fiore splendido e odoroso a perigonio tubuloso, munito di un’ interna corona a forma di coppa del colore giallo vivo del croco, e lo chiamò “narciso”.


Erinnidi

Oh,

Alchidanio sei tu

Frutto della Divisione

Danzante sui calcagni.

Puoi solo usare il mio nome

E conosco coi tuo occhi

I Luoghi Nascosti:

L'agitarsi dei numeri

Che sotto di te bramano

Il mio infinito,

La tua morte.

Nei Viaggi delle Curve

Particolari concentrazioni di te

E In me e te sono

Le vecchie note

Che disfan

Il Telo della vita:

Immagini parlanti

Del frutto pulsante…

…Ennesima fatica di Dio!

[Jacopo Torrico]

Poesia del Figlio dell'Uomo

Sono sangue che scorre

Sul corpo

Di un Muto Annunziatore,

Sono un'Immagine

Scolpita senza fine

Su di un'unica Pietra,

Sono l'assassino

Che hai salutato per l'ultima volta,

Sono Colui che hai ucciso,

Puoi aiutarmi?

[J. T.]